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 2020  febbraio 15 Sabato calendario

Intervista a Samuel dei Subsonica

Sotto la Mole c’è un altro simbolo di Torino: Samuel e con lui i Subsonica, la band che ne ha cantato il cielo con amore: " Perso nei miei sogni con lo stesso smarrimento/ Il cielo su Torino sembra ridere al tuo fianco" ( Il cielo su Torino, 1999). Samuel Romano, 48 anni, abita qui vicino, nella casa che fu di Fred Buscaglione e qui sta costruendo il suo nuovo studio che si chiamerà Golfo Mistico, un progetto a cui tiene moltissimo: « Il nome viene da Wagner che volle costruire una fossa in grado di assorbire i suoni così che i cantanti e i musicisti potessero sentirsi meglio sul palco. Visto che il mio studio sta in una buca simile mi sembrava perfetto. Non sarà uno studio normale: sarà aperto agli amici che magari si trovano a suonare a Torino e hanno voglia di venire a fare qualcosa qui come è già successo con Coez e Motta ma ci sarà anche una cucina con uno chef e un bar con un esperto di mixology. Mi piacerebbe che poi il tutto potesse anche magari diventare un programma televisivo, un posto libero e fuori dagli schemi per divertirsi e far divertire ».
Non c’è solo questo: Samuel tra poco inizierà un nuovo tour con i Subsonica e ha appena finito di scrivere un libro insieme a Mauro Garofalo che si intitola Come Respirare Discorso sulla musica e la sua anima.
Questo libro non è esattamente un’autobiografia...
«No. È più un’analisi di quello che sta intorno a me, di che cosa significa fare il musicista, della musica e di come è nata questa storia con lei».
E come è nata?
«Io a cinque anni ho iniziato a cantare perché avevo un fratello che suonava la chitarra e tutti si resero conto da subito che c’era qualcosa di strano perché anche se era un vocalizzo in finto inglese di un bambino a quanto pare funzionava...».
Come in finto inglese?
«Sì, cercavo di imitare quel suono. Io ho fatto la prima elementare a cinque anni perché già leggiucchiavo e scribacchiavo. Questo perché avevo due fratelli di dieci anni più grandi di me e vivevamo tutti e tre in una stanzetta. Io li guardavo fare i compiti e volevo leggere e scrivere».
Abitavi alla famosa Barriera di Milano che veniva considerato un quartiere malfamato...
«Sì, è il quartiere vicino all’aeroporto dove erano state costruite case popolari e casermoni vari in cui abitavano gli immigrati che venivano dal Sud. C’erano storie umane incredibili. Spesso difficili. La mia famiglia era messa un po’ meglio».
Cosa facevano i tuoi?
«Mia madre la casalinga, mio padre rappresentante di abbigliamento, lavoro che poi ha passato a uno dei miei fratelli mentre l’altro è diventato odontotecnico e ha aperto uno studio che col tempo è diventato uno dei più grandi di Torino. Io per un periodo ho lavorato con lui perché mi sono diplomato come odontotecnico. I miei non si sono mai opposti a che io facessi musica però l’ultimatum era: "se vuoi stare in questa casa o studi o ti mantieni". Per fortuna, come dicevo ho iniziato molto piccolo».
Che cosa si ascoltava in casa tua?
«Da De André ai Beatles, da Renato Zero alle cose più di tendenza grazie a mio fratello più grande. Però io quando ascoltavo la musica era come se nella mia testa la scomponessi nelle varie parti che andavano a crearla e questa cosa mi ha portato alla convinzione assoluta che quello sarebbe stato il mio mestiere».
Ma in famiglia non c’era nessuno che avesse talento musicale?
«Un nonno, che però è morto quando avevo nove anni: suonava tantissimi strumenti della tradizione musicale calabrese, in particolare il mandolino e la fisarmonica. Era il padre di mia madre che è nata qua mentre mio padre è del Monferrato. Lui veniva da Caulonia dove si tiene un importante festival dedicato alla Tarantella».
È vero che i tuoi fratelli ti esibivano?
«Sì, era il ’79, in campeggio e i miei fratelli mi mettevano in uno scatolone da cui saltavo fuori, cantavo una canzone e poi ci ritornavo dentro: la gente era basita».
E poi?
«Ho cominciato proprio lì in campeggio a suonare con dei ragazzi: il mio primo gruppo. Amo stare in gruppo, forse perché sono cresciuto con due fratelli. Poi da quando verso i 7-8 anni ho iniziato a suonare la chitarra contestualmente ho iniziato a scrivere le mie canzoni».
Andavi a lezione di chitarra?
«Sì, ma il mio professore si è reso conto che, dopo aver raggiunto un certo livello, non miglioravo. Gli ho detto che mentre suonavo la chitarra iniziavo a cantare senza neanche accorgermene e così perdevo il filo.
Allora mi fa: "Ah sì: allora dai, canta!". Quando smetto mi fa: "Ma che cosa fai qui? Vai a scuola di canto!"».
Ci sei andato?
«Il giorno dopo ero già lì ed è una cosa che mi è servita tantissimo».
Come si arriva ai Subsonica?
«C’era un periodo in cui suonavo con quattro gruppi: anche quella una bella palestra finché Max Casacci, che aveva appena lasciato gli Africa Unite, mi ha contattato perché voleva sperimentare, fare cose nuove. E poi io ho portato dentro Boosta con cui già suonavo».
E il nome come è venuto fuori?
«Io spingevo per "Sonica" proprio per dare l’idea della ricerca sonora, Max invece era fissato con "Sub" a indicare le frequenze basse e quindi il club, la cassa. Una sera ognuno dei due continuava a perorare la sua idea finché l’allora fidanzata di Max, che non ne poteva più, sbotta: "E fate Subsonica, ma piantatela lì!"».
Come mai invece il nome Samuel?
«Non lo so. Forse c’era un cantautore o una canzone che si chiamava così che piaceva ai miei genitori (piccolo scoop: potrebbe essere Où Sont Nos Vingt Ans, Samuel interpretata da Catherine Desage e Francis Lai e interpretata nel 1971 dall’attore Roger Hanin nel lato b del 45 giri, Le Coeur D’une Femme, ndr). A X Factor invece all’inizio tutti mi chiamavano Manuel: a un certo punto ci ho rinunciato e poi è migliorato».
A proposito, come è successo che hai fatto "X Factor"?
«Mi hanno chiamato e io che all’inizio non ero sicuro mi sono trovato in una situazione strana per cui avrei avuto molto tempo libero. A quel punto era l’impegno perfetto da prendere e senza quasi accorgermene mi sono ritrovato seduto lì».
Non ti hanno accusato di essere un traditore della scena indie?
«No, perché Manuel aveva già sdoganato questa cosa e poi perché
forse i tempi sono cambiati».
A proposito: non hai chiesto consiglio a lui?
«Sì, una sera sono andato a Germi, il suo locale di Milano, e lui mi ha raccontato molte cose che non posso dire ma che mi sono state utilissime».
Del tipo?
«Del tipo che mi ha avvertito: "Guarda, a un certo punto ti succederà questo" e puntualmente succedeva. "Allora devi reagire altrimenti ti sbranano ma al tempo stesso se reagisci con rabbia passerai dalla parte del torto". Io di carattere sono morbido però se vengo portato oltre la soglia divento estremamente aggressivo.
Ma se ti arrabbi in tv la paghi: lui preparandomi prima mi ha salvato perché così ero già pronto».
Quindi non è tutto già scritto dagli autori? Per esempio quando tu sei stato attaccato dal pubblico?
«Ecco. Proprio no: non c’era niente di previsto in quella storia se non che sapevo che sarei stato impopolare.
Ma ho voluto perseguire la mia idea di qualità e infatti con il gruppo che ho scelto sono andato in finale».
È stato difficile?
«Abbastanza, perché di fatto devi imparare un linguaggio diverso, che è il linguaggio televisivo. La cosa incredibile è che mi sono anche appassionato: adesso quando guardo la tv capisco cosa succede».
Come è cambiata da allora la tua popolarità?
«La differenza è che con i Subsonica siamo popolari presso un pubblico legato alla musica che se ti ferma ti fa pure le pulci, dopo X Factor invece magari mi ferma il bambino di sette anni e... mi abbraccia! È bello».
So che hai avuto un problema al cuore...
«Sì, una mattina mi sono svegliato e ci vedevo strano: ho capito che c’era qualcosa che non andava e sono andato subito alle Molinette dove mi hanno detto che avevo un piccolo buco che in alcuni soggetti può fare entrare più aria del dovuto e creare possibili ictus. Con una breve operazione di una ventina di minuti da sveglio ho risolto. Mi hanno detto che è la stessa cosa che ha avuto Cassano: si chiama Fop. Prima mi sentivo invincibile. Adesso mi rendo conto che è importante dare il peso giusto alle cose ed è quello che mi ha portato alle riflessioni di questo libro e a costruire uno studio, un luogo mio confortevole dove poter fare cose che mi diano stimoli diversi. Che poi magari più in là possano anche confluire in un secondo disco mio».
E adesso cosa succede?
«Stiamo avendo un nuovo successo intergenerazionale grazie a
Microchip temporale, ovvero la rilettura di Microchip emozionale con artisti nuovi. Abbiamo già 22 date in un mese: per me sarà dura!».