Robinson, 15 febbraio 2020
Stephen King: «Le mie storie per ragazzi»
In fondo, scrivere storie è come un gioco. Può anche essere un lavoro vero e proprio, quando per lo scrittore arriva il momento di andare al sodo, ma quasi sempre parte tutto da un semplice gioco di immaginazione. Inizi con un cosa succederebbe se, poi ti siedi alla scrivania e stai a vedere dove ti porta quel se. Ci vogliono un tocco leggero, una mente aperta e uno spirito fiducioso. Quattro o cinque anni fa – non ricordo esattamente quando, ma dev’essere stato mentre ancora lavoravo alla trilogia di Bill Hodges – ho cominciato a trastullarmi con l’idea di una moderna Pandora. Ce l’avete presente, parlo della ragazza curiosa che dopo aver ricevuto un contenitore magico finisce per aprirlo spinta da una tremenda curiosità (maledizione della razza umana), facendo scappare fuori tutti i mali del mondo. Che cosa potrebbe accadere, mi sono chiesto, se a ricevere un simile contenitore fosse una ragazzina dei nostri giorni, e se a regalarglielo non fosse Zeus ma un misterioso sconosciuto?
L’idea mi piaceva e mi sono messo a scrivere una storia intitolata La scatola dei bottoni di Gwendy. Se vi venisse in mente di chiedermi da dove è venuto fuori il nome Gwendy, non saprei dirvi nulla di più di quello che vi avrei detto dopo aver scritto le prime venti, trenta pagine. Può darsi che abbia pensato a Wendy Darling, l’amichetta di Peter Pan, o a Gwyneth Paltrow, oppure che mi sia semplicemente scattato in testa dal nulla (come è successo con il nome John Rainbird mentre scrivevo L’incendiaria). A ogni modo, mi sono immaginato una scatola con dei bottoni colorati, uno per ogni continente della Terra: se ne schiacciavi uno capitava qualcosa di orribile nel territorio corrispondente. Ho aggiunto un bottone nero che avrebbe distrutto ogni cosa e – giusto per mantenere vivo l’interesse del proprietario della scatola – delle levette sui lati che avrebbero elargito irresistibili cioccolatini.
O magari mi è anche venuto in mente il mio racconto preferito di Fredric Brown, L’arma. Nel racconto, uno scienziato coinvolto nella creazione di una superbomba apre la porta di casa a uno sconosciuto, giunto lì a tarda notte per implorarlo di lasciar perdere il progetto. Lo scienziato ha un figlio che, come si direbbe oggi, è “mentalmente disabile”. Dopo aver spedito via il visitatore, lo scienziato vede che il figlio sta giocando con una rivoltella carica. Nell’ultima riga del racconto si legge: «Chi se non un pazzo poteva regalare una rivoltella carica a un deficiente? ».
La scatola dei bottoni di Gwendy è la pistola carica, e per quanto Gwendy sia tutt’altro che idiota, è pur sempre solo una ragazzina, accidenti! Mi sono chiesto che cosa avrebbe fatto lei con quella scatola. Quanto tempo ci avrebbe messo a diventare dipendente dai cioccolatini che elargisce? Dopo quanto la sua curiosità l’avrebbe spinta a premere uno di quei bottoni, giusto per vedere ciò che sarebbe successo? (Il massacro di Jonestown, come si scoprirà in seguito.) E se il pensiero del bottone nero, quello che distrugge ogni cosa, avesse cominciato a ossessionarla? E se la storia si fosse conclusa con Gwendy che, magari alla fine di una giornata particolarmente brutta, schiaccia il bottone e scatena l’apocalisse? Sarebbe davvero così azzardato in un mondo dove ci sono abbastanza ordigni nucleari da annientare ogni forma di vita sulla Terra per milioni di anni? In un mondo dove, che ci piaccia o meno ammetterlo, alcuni di quelli che hanno accesso a simili armi non sono poi così sani di mente?
All’inizio la storia procedeva bene, ma a un certo punto ho iniziato a perdere colpi. Non mi capita spesso, di tanto in tanto però sì. Credo di avere più di una ventina di racconti incompiuti (e almeno due romanzi) che mi hanno piantato in asso. O forse sono io ad aver piantato in asso loro. Nel caso in questione, dev’essere successo quando Gwendy cerca di escogitare un modo per nascondere la scatola ai suoi genitori. Ha cominciato a sembrarmi tutto troppo complicato. Peggio ancora, non sapevo come proseguire. Ho smesso di lavorare alla storia e mi sono dedicato ad altro.
È passato un po’ di tempo, forse due anni, o forse qualcosa di più. Ogni tanto mi tornavano in mente Gwendy e la sua pericolosa scatola magica, senza che però mi venissero nuove idee, così la storia è rimasta sul desktop del mio computer, relegata in un angolo dello schermo. Non cancellata, ma senz’altro trascurata. Poi un giorno ho ricevuto una email da Rich Chizmar, che ha fondato e dirige una casa editrice, la Cemetery Dance, ed è l’autore di alcuni ottimi racconti fantasy/horror. Mi proponeva con una certa disinvoltura – immagino senza aspettarsi davvero che avrei accettato – un’eventuale collaborazione futura su una qualche storia, o magari pensava che avrei trovato divertente partecipare a un round-robin, una scrittura condivisa nel corso della quale diversi autori si sarebbero alternati nella stesura di un racconto. L’idea del round-robin non mi allettava, perché quello che di solito ne viene fuori è poco interessante, ma l’idea di una collaborazione sì. Conoscevo il lavoro di Rich e sapevo quanto ci sa fare con le cittadine e la vita di provincia della classe media. Gli viene naturale mettere in scena grigliate in cortile, ragazzini in sella a biciclette, giri da Walmart, famigliole che sgranocchiano popcorn davanti alla tv, poi dà un bello scossone al tutto introducendo un elemento sovrannaturale e un pizzico di horror.
Rich scrive storie dove il buon vivere quotidiano di punto in bianco viene brutalmente stravolto. Ho pensato che, se qualcuno poteva portare a termine la storia di Gwendy, quello era lui. E poi, devo ammetterlo, ero curioso. Per farla breve, ha fatto un lavoro eccellente. Io ho riscritto alcuni suoi pezzi, lui ha riscritto alcuni dei miei e ne è venuto fuori un gioiellino. Gli sarò sempre grato di non aver permesso che Gwendy languisse nell’angolino in basso a destra del mio schermo.
Quando mi ha suggerito che la storia avrebbe potuto avere un seguito, ho trovato l’idea interessante, ma non ne ero del tutto convinto. Che cos’avrebbe fatto Gwendy? Volevo scoprirlo. Mi chiese come la vedevo se Gwendy, ormai adulta, fosse stata eletta alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, e la scatola dei bottoni fosse riapparsa nella sua vita… insieme al misterioso proprietario, l’uomo dal piccolo cappello nero. Quando una cosa funziona lo capisci subito, e quella era talmente perfetta che ne ero geloso (non molto, però un pochino sì).
La posizione di potere di Gwendy nell’apparato politico avrebbe potuto agire da cassa di risonanza per la scatola. Gli ho detto che l’idea mi stuzzicava e che poteva mettersi all’opera. A essere sincero, probabilmente avrei risposto allo stesso modo se mi avesse proposto di far diventare Gwendy un’astronauta che attraverso una porta spazio-temporale si ritrova in un’altra galassia. Perché Gwendy appartiene a Rich quanto appartiene a me. Forse è persino più sua, visto che senza il suo intervento non esisterebbe affatto.
Nella storia che state per leggere – beati voi! – è in bella mostra tutto il formidabile talento di Rich. Evoca come si deve Castle Rock, e i vari Tizio e Caio che popolano la cittadina risultano verosimili. Queste persone le conosciamo già, dunque ci stanno a cuore. E anche Gwendy ci sta a cuore. A dire il vero, io in un certo senso me ne sono innamorato, e mi fa davvero piacere che sia tornata per una nuova avventura.
©2019 Stephen King, da “La piuma Magica di Gwendy” di Richard Chizmar; © 2020 Mondadori Libri S.p.A. per Sperling & Kupfer