Robinson, 15 febbraio 2020
Il romanzo sul calcio di Sandro Bonvissuto
Sembra un libro sul calcio, invece è un libro sull’amore. E sulla solitudine, quella” solitudine d’argento” che brilla di vuoto e di bellezza. L’amore che si può provare solo a otto anni, che non chiede niente in cambio e non si sente al riparo mai, l’amore per una squadra che gioca a pallone e nella circostanza si chiama Roma. L’ha scritto Sandro Bonvissuto, un outsider ( fa il cameriere in un’osteria romana) al quale è riuscito un miracolo: dire quello che hanno detto in tanti – il tifo bambino, i riti tribali da stadio, l’iniziazione maschile, le figurine, la bandiera – come non lo ha detto nessuno: con una grazia romantica e stupefatta, una specie di pianto dentro, un pianto antico dove ogni lacrima brilla nel buio come una perla. Ed è proprio vero, come recita il titolo, che La gioia fa parecchio rumore ( Einaudi), mica solo perché lo stadio è un universo strapieno di corpi e voci. Fa rumore perché la vivono in molti, insieme, eppure appartiene a ciascuno e soltanto a lui, pietra preziosa dentro una prigione.
Sullo sfondo di una città e di un’epoca, quella che scivola dai Settanta agli Ottanta, nella tribù del Quadraro, tra figure di parenti leggendari, ad esempio Zio scritto sempre con la maiuscola, oppure mamma che sforna panini alla frittata da portare all’Olimpico («i tifosi come sfollati, scappati di casa, gente sopravvissuta a un sisma») e papà che dopo una delusione romanista ha deciso di non parlare quasi più, infatti lo chiamano er muto de Zorro, questo romanzo di formazione ( la formazione della Roma, anche) è un corridoio pieno di stanze, e le più scure sono anche le più luminose. Perché la sconfitta chiede amore, il dolore pretende amore. La disobbedienza dell’amore, la sua asimmetria. Su tutto, la luce di Roma: «L’aria stessa era luce, dove abita il giorno che non conosce notte». Questo è un libro di parola, lirico e comico insieme, pieno di paesaggi e persone, ognuna blindata nella condanna della passione giallorossa che diventa la chiave d’interpretazione del creato. Scorre un repertorio di oggetti dimenticati, la confezione a piramide del latte, il gioco con il piano basculante dove non far cadere la pallina nei buchi e alla fine possibilmente vincerla, il pomello in radica del cambio che vibra in folle, e ogni cosa è subito un sentimento, un ricordo, una vibrazione. «Ci sentivamo come bambini che si perdono nel mondo».
I tifosi: gente che offre il proprio corpo al patire. La sconfitta è una dimensione di crescita esistenziale nella sopportazione, finché non arriverà Lui: il numero 5 brasiliano mai nominato nel libro, il tramite tra l’uomo e dio, quello che si deve pronunciare con la seconda “a” nasale, quasi una” o” ( Faucòn). L’eroe dello scudetto e di una finale di Coppa dei Campioni smarrita nello stadio di casa, incarnazione della Storia che cambia per non cambiare mai. Infatti Zio resterà scettico anche nella gloria di un momento, non si fiderà: «Aveva la faccia di quelli che hanno il balcone sulla tangenziale».
I poveri amano meglio, amano di più, è l’unica cosa che possono fare gratis. Una schiera di zii si fa fotografare e mai tutti insieme, perché possiedono un solo cappotto e se lo devono scambiare. Per le trasferte si monta su un pullmino Fiat 900 identico a quello delle suore dell’apostolato, e i mandarini nel bagagliaio saranno per sempre l’aroma ( la Roma) del ricordo, la madeleine tifosa. Eppure non c’è nulla di melenso, neppure un semino di retorica perché il patimento è una faccenda virile, ché ad amare i vincitori sono capaci tutti. Ecco, i sacerdoti del «vincere è l’unica cosa che conta», poveri stolti, dovrebbero leggersi questo libro e riflettere.
Un cameriere, crediamo ancora per poco, è diventato dunque uno dei migliori scrittori italiani e ci spiega che l’ordine della storia non è cronologico ma mitologico, e si spalanca sempre sulla paura, sulla solitudine e sulla morte. Qui ce n’è parecchia. La morte del povero Paparelli ucciso nel derby da quel razzo da una curva all’altra, e niente sarà mai più come prima. La morte quotidiana nell’Italia del terrorismo e poi quella simbolica, figurata e teatrale, la morte dei sogni e delle illusioni, la morte che recita sé stessa in rappresentazioni che sono soltanto repliche. Però il rumore che fa la gioia è più forte, più luminoso. Basta un attimo ed è come il lampo del temporale nel cielo d’agosto, quando l’estate comincia a finire. Perché questo è anche un libro sull’addio.