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 2020  febbraio 15 Sabato calendario

L’eterna sfida tra i nemici di penna

Sono passati quasi trent’anni, ma il ricordo è nitido. Erano gli anni Novanta, io un adolescente curioso e talvolta perfino troppo inquieto per la rigida etichetta del prestigioso liceo che frequentavo. Nessuna meraviglia, dunque, se in un azzardo di provocazione intellettuale, mi permisi un giorno ( innocentemente) di chiedere all’insegnante a chi avrebbe dato il trofeo in un’immaginaria tenzone fra Joyce e Proust. Seguì lungo silenzio. Abbassò gli occhiali, mi fissò come se avessi osato l’inaudito. Poi andò giù di mannaia: «I tornei fateli nell’ora di ginnastica». E la faccenda sembrò chiudersi così, con il giovane Massini tacciato di vilipendio ai mostri sacri della letteratura. Per fortuna ci fu un seguito, non so se dettato da un sadico desiderio d’infierire.
Fatto sta che circa una settimana dopo, arrivati al congedo prima delle vacanze natalizie, ci venne affidata la lettura di un libro, diverso per ciascuno, componendo una specie di mosaico dei massimi esiti letterari del Novecento. Ognuno avrebbe dovuto non solo studiarsi bene il testo, ma al ritorno sui banchi sostenerne a spada tratta i pregi durante una sorta di gara a eliminazione diretta ( per la cronaca, a me toccò Passaggio in India di Forster). Sia come sia, l’esperimento riuscì alla grande, perché il pretesto della gara si mutò in grimaldello per convincerci a leggere davvero, in profondità, con passione, accanendoci come non mai pur di sbaragliare gli avversari.
E quando passammo dagli ottavi ai quarti di finale (non parliamo delle semifinali e della finalissima) si creò perfino un inatteso bisogno di leggerci i libri altrui, per votarli con cognizione di causa. Vinse La metamorfosi di Kafka, e non mancarono ovviamente le polemiche, gli anatemi e le ire, a fronte delle quali l’insegnante, davanti a tutti, volle ripetermi che la mia idea era folle, e che le gare fra penne non sono accettabili. Tant’è, la mia bizzarra domanda su chi vinceva fra Joyce e Proust sarà stata anche blasfema, ma innestò un meccanismo niente male, tanto che ne serbo ancora memoria, e spesso mi diverto a chiudere gli occhi e sognare analoghe competizioni fra poeti, saggisti, pamphlet. Che poi, a dircela tutta, non era vero manco per niente che i tornei si fanno solo nell’ora di ginnastica. Anzi, a ben guardare la letteratura si è divertita più e più volte ad allestire fior di rodei.
Il più antico (e divertente) che io rammenti è datato quattro secoli prima di Cristo, e ne è autore Aristofane: ne Le rane il dio Dioniso se ne scende all’inferno per riportare in vita uno dei grandi tragediografi del passato, peccato solo che la scelta sia piuttosto complicata, e si renda necessario uno scontro diretto fra Eschilo e Euripide.
Chi dei due è il migliore? Chi merita la palma d’oro? La gara occupa l’intera seconda parte della commedia, fino al verdetto finale che non riferirò per non essere tacciato di spoiler. Saltiamo avanti nel tempo ed ecco il padre delle italiche lettere, Dante in persona, che nel XXV canto dell’Inferno si lancia in duello contro Lucano e Ovidio: chi di noi è più bravo a raccontare la trasformazione di un essere umano in bestia? Giudichi il lettore ( non esisteva ancora, ahimè, il televoto). A chi insistesse a dipingere la letteratura come un’oasi quietamente pacifica, consiglierei la lettura di un diario inglese del Settecento, scritto da un eccentrico sbruffone di nome Boswell, il quale si fece ospitare a casa nientemeno che di Rousseau e Voltaire. Il libriccino narra alla perfezione la spietatissima concorrenza fra i due grandi francesi, la loro irresistibile sete di paragonarsi in tutto, mettendo fronte a fronte opere e idee. Se fosse esistito Facebook, è quasi garantito che non si sarebbero risparmiati post al vetriolo. Chi avesse dubbi si rilegga le pagine di sommo disprezzo con cui Lev Tolstoj distrugge le opere di un pur talentato inglese di nome William Shakespeare.
Nel secolo passato, poi, i casi di contesa fra penne celebri sono talmente tanti che c’è l’imbarazzo di quali citare. Faulkner non esitò a schierarsi pubblicamente contro Hemingway, Yeats fece altrettanto contro Oscar Wilde, esattamente come Henry James e H. G. Wells che si confrontarono a suon di sciabolate e paragoni stilistici in un corpo a corpo estenuante, a dirimere il quale veniva implicitamente delegato il lettore. Ma è niente al confronto della lotta titanica fra Virginia Woolf e James Joyce, con la prima che inveiva assatanata sull’incapacità di comprendere l’Ulisse ( non era peraltro sola a detestare l’autore di Finnegans Wake, sul quale anche Nabokov non faceva sconti). E non fu una gara senza esclusione di colpi quella fra Pirandello e Gabriele D’Annunzio? Ostilità spudorata, altro che torneo, e nel 1922, alla prima dell’Enrico IV, non ci fu un solo spettatore che non si divertisse un mondo alla parodia conclamata dello stile del Vate, messo in ridicolo nella folle sceneggiata del protagonista.
Potrei continuare. Me ne asterrò soltanto per non privare del tutto gli ultras bibliofili- romantici di un’immagine idilliaca della letteratura come paradiso incontaminato. Il fatto è che dopo trent’anni – mi si perdoni la franchezza – non ho ancora digerito d’essermi preso la patente di facilone per aver messo in gara Proust e Joyce: tralasciando che un certo Harold Bloom si era preso la briga di allestire un ben più celebre contest, a me sembra che da secoli la letteratura non faccia altro che sfidarsi, senza tregua, in un continuo lottare coi modelli, con i precedenti, con i pilastri della tradizione o con chi appare portatore di una poetica opposta alla propria. Mi chiedo perché fingere che questo non esista. Perché rabbrividire all’idea di una grande gara, simbolo e specchio di ciò che sempre le arti fanno e faranno, ovvero tentare la sintesi perfetta, superiore, ancora non espressa. Cos’è questo se non un torneo? La posta in palio, in fondo, è raccontare chi siamo, più di chiunque altro ci abbia provato.
Competizione? Certo, sì, che in questo caso significa benzina per creare. Lasciare la gara all’ora di ginnastica? Se gli scrittori l’avessero fatto sul serio, non avremmo eccellenze, ma solo mediocrità e sudditanza ai modelli. E allora torneo sia. Che vinca il migliore.