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 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

Intervista all’allenatore di basket Sasha Djordjevic

Sasha Djordjevic è un uomo che sceglie le parole con la stessa cura che ha messo nello scegliersi i princìpi. In testa al campionato di basket più seguito degli ultimi 30 anni, marcia con la maniacalità di chi bada ai dettagli. È per Belgrado quel che Totti è per Roma, si dice "milanese adottivo" e dopo i Mondiali da ct della Serbia sta riscoprendo in Bologna uno stile di vita vicino al suo - gli affetti al centro - mentre si dedica a un progetto di rilancio, con giocatori che siano "responsabili, altruisti, appassionati, in sostanza vincenti, consapevoli di essere un messaggio e un mezzo di comunicazione. Giocatori che trasmettono le emozioni dal parquet agli spalti ma non se ne lasciano toccare. Le emozioni sono i nostri primi nemici".

Perché, Djordjevic?
"Perché possono paralizzare. L’emozione deve avere un suo spazio alla fine. Di una partita, o di una stagione, meglio ancora se di una carriera. Lo sport è ossessione. Una vittoria dura meno di una sconfitta. Vinci, e pensi alla prossima. Non ci si può accontentare".

Da dove arriva questa determinazione? 
"È un insegnamento di mio padre. Grande allenatore. Tornavo a casa dopo aver fatto 20 punti e aspettavo i suoi elogi. Lui zitto, sul divano, davanti al televisore. "Davvero vuoi che parliamo di partita?", mi domandava. Allora posava il telecomando e cominciava a massacrarmi".

Era molto esigente?
"Non era esigente. Era costruttivo. Mi ha insegnato che ci sono un mucchio di altre cose a parte il bottino. Mi ha insegnato a cercare la perfezione accettando l’idea che non esiste. A non scappare davanti agli ostacoli".

Lei che ragazzo era?
"Allegro. Se c’era da ridere, ero là. Come ora. Credo nella leggerezza e nelle relazioni. Sono ossessionato dall’idea di migliorare insieme a chi lavora con me. Credo che dipenda da Belgrado, le mie origini, la mia appartenenza a un popolo che sa come ogni cosa sia il prodotto di un’altra. Dopo la A, viene la B, poi viene la C. La storia dei Balcani è stata figlia di una conseguenza, un passo alla volta potremmo risalire fino agli Ottomani. Perciò siamo il popolo più adatto a giocare a pallacanestro".

Perché?
"La storia ci ha allenato a difendere. A difendere la nostra terra. Non siamo mai stati noi a occupare o invadere. Spesso siamo stati in minoranza ma avevamo noi stessi. La nostra appartenenza. Nel basket con l’attacco vinci una partita, con la difesa vinci i titoli. Perciò servono squadre di uomini veri, che sappiano creare un sentimento di amicizia per battere il nemico più forte".

Possiamo chiamarlo il Metodo Djordjevic?
"È così. È una filosofia. Una maniera di stare al mondo. Io sono una persona disposta allo scherzo. Come Bologna. È nel nostro stile di vita alzarci al mattino e decidere chi prendere per i fondelli. Che cos’è il basket se non questo? Uno scherzo. Un piccolo imbroglio continuo. Guardi con gli occhi a destra e passi la palla a sinistra. L’arbitro è voltato e tu prendi posizione con uno sgambetto nascosto, una spinta. Il basket è sapersi adattare alla vita, in ogni piccolo secondo".

Perché scelse Milano quando lasciò Belgrado?
"Avevo offerte da Panathinaïkos e Maccabi. Al mio agente dissi: se c’è Milano, si va a Milano. Non voglio sentire altro. Per la sua storia, per Mike D’Antoni. Con mia moglie abbiamo scelto di rimanerci a vivere, siamo milanesi adottati. Adesso ha anche i grattacieli, ultimo segno di una dimensione internazionale. Belgrado è la mia città, Milano è la mia scelta. Mi piace perché non dà credito. È abituata alle celebrità. Non ti apprezza solo perché hai messo la sua maglia. L’amore di Milano te lo devi guadagnare. Come i tenori alla Scala".

Ha ambizioni europee anche nel basket. Com’è Milano da avversaria?
"Stanno facendo un buon lavoro. Bisogna avere pazienza con i risultati. Noi diciamo: un albero non può impedire di vedere una foresta". 

Lei a Bologna da giocatore era stato un simbolo della Fortitudo. Essere allenatore da quest’altra parte, secondo lei, imbarazza più un tifoso della Virtus o della Fortitudo?
"Imbarazza? Perché imbarazza? Non mi piace questo verbo. Scegliamo un’altra parola". 

Diciamo: spiazzare? Sorprendere?
"Sono passati tanti anni. Ho sfidato il passato. L’ho voluto. Dovevo farlo. Per capire come mi sarei sentito. È una cosa speciale. Ci sono entrato dentro con la testa tranquilla, con la professionalità messa in tutti i posti dove ho lavorato. Conte è passato all’Inter e ha detto una bella frase: "Quando vado in una squadra, ne divento il più grande tifoso"". 

Non esistono i traditori nello sport?
"Sarri chiama traditore chi non dà il 100 per cento nella squadra in cui si trova. Sono d’accordo. Il resto è cliché. Vedi cosa combinano le emozioni? In questo caso sono nemiche dei tifosi. La professionalità conta più delle emozioni. Perché si può misurare. Come l’altezza. Perché mai dovrebbe essere traditore uno che va via, e non una società che ti manda via?".

Parla in generale o si riferisce alla sua esperienza alla Fortitudo?
"Fortitudo. Avevo un altro anno di contratto e sono stato scaricato in una maniera bruttissima. Senza che nessuno sia venuto a dirmi niente, con la minaccia di farmi allenare alle 7 del mattino con la squadra juniores. Anch’io ho avuto problemi in passato per le emozioni. Mi sono legato ma a chi paga interessa solo vedere una squadra che dà tutto. Il tradimento si vede a occhio. Il campo non dice bugie. Questo senso di giustizia non sempre mi ha reso la vita facile. Ecco un’altra cosa che non si può misurare. La giustizia. Come la bellezza".

Che cos’è la bellezza nel basket? Molti chiamano circo lo stile di gioco basato sul tiro da tre punti.
"La filosofia di un allenatore è una strada, poi bisogna adattarsi a quel che si ha. La mia strada è passarsi la palla, scegliere di avere più protagonisti dentro una partita, costruire una squadra che oggi darà visibilità a me e domani a te".

È una visione da ex playmaker?
"Da creatore di gioco. Può farlo anche un centro. Penso a Cosic. Ma io non parlo mai del mio passato ai giocatori. Ho un mondo interiore che esiste, non cambia, una specie di eredità, ma non mi faccio influenzare dal passato. Un ex giocatore ha questo nemico interno, l’ego da sconfiggere, da spostare, per far spazio a qualcos’altro".

In questo suo mondo che ha per epicentro i legami, che ruolo ha l’amicizia con Sinisa Mihajlovic? Vi vedete spesso a Bologna?
"Ci sentiamo e ci vediamo quando si può. Sinisa sta affrontando una cosa straordinaria in modo straordinario. Ci conosciamo da 30 anni. Il mio defunto suocero era l’ad della Stella Rossa. Sinisa firmò con lui. Era la squadra che vinse la Coppa Campioni nel ’91. L’anno dopo toccò a noi del Partizan nel basket con Obradovic in panchina, e Danilovic, Rebraca, Koprivica. Sono state le ultime Coppe vinte dai club della ex Jugoslavia. Poi è cambiato tutto". 

Lo sport è diventato per soli ricchi?
"Ma ci si può ribellare. Si possono creare ambienti ideali per chi ha possibilità diverse. Non è per sbaglio che al Partizan ancora nascono giocatori forti per la nazionale. Ai ragazzi dovremmo insegnare il valore di quella maglia. Anche in Italia gli sento dire: sogno di vestire la maglia azzurra. Io gli rispondo: è sbagliato. Devi sognare di vincere con la maglia azzurra, magari con un tuo tiro all’ultimo secondo. Se la palestra apre alle 5, vai là alle 4 e 45. Del mattino, non della sera. La nazionale è uno dei mezzi di comunicazione più potenti. So che le regole non aiutano. I giovani hanno poco spazio. Le squadre si appoggiano agli stranieri. Ho visto Milano vincere in Eurolega senza avere nemmeno per un minuto un italiano in campo. È pauroso".

Perché molti europei sostengono che l’Eurolega sia superiore alla NBA? 
"Sono due competizioni diverse. In Europa ogni partita è cruciale per il risultato finale. In NBA ci sono molti momenti durante la stagione per rifarsi. In America c’è meno pressione che da noi. Io la chiamo l’esasperazione del sabato. Quel momento in cui sei sospeso tra la coronizzazione e la canalizzazione".

Questa deve spiegarla.
"Coronizzazione viene da corona. Quella che ti mettono sulla testa in caso di vittoria. Canalizzazione viene dal verbo canalizzare".

Come fa ad avere questa padronanza dell’italiano così sottile?
"Ho coltivato il piacere di non essere banale quando mi esprimo. Mi aiutano le mie figlie. Sono nate in Spagna. Hanno 20 e 17 anni. L’ultima fa la scuola internazionale, la prima studia a Londra. Mia moglie ha azzeccato tutto. Ha evitato che cadessi nella trappola sentimentale di tornare a Belgrado. Per me sarebbe stato tutto più semplice là. Cosa dicevamo? Ah, sì, la differenza con gli americani. L’anno scorso, dopo la qualificazione alle finali di Champions, abbiamo perso a Pistoia, eravamo scarichi. Finita la partita, gli americani sono andati a una festa e i video sono finiti in rete. È scoppiato un casino. Per loro è normale andare ai party dopo una sconfitta. L’esasperazione del sabato non li tocca. Sono estranei a quella roba di: andate a lavorare, onorate la maglia, meritiamo di più". 

A lei invece piace.
"A me piace perché mi fa sentire ancora più responsabile. Il gioco più diffuso per chi viene a vedere le partite è puntare il dito. Tremila cinquecento allenatori. Ma quando puntano un dito contro qualcuno, e non se ne rendono conto, le altre tre sono rivolte contro di loro. A me che non sono americano, piace sentirmi arrabbiato quando perdo. Ho scoperto che mi aiuta a vincere".