Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

L’antisemitismo fra i comunisti. Un saggio

Avrebbe dovuto essere, secondo la promessa, il secolo del proletariato e della giustizia sociale. Invece è stato il secolo degli ebrei e delle apocalissi totalitarie. A riconoscere, decifrare e governare ogni processo storico, sempre secondo la promessa, avrebbe dovuto essere la sinistra, le sue nomenklature, i suoi teorici e i suoi sindacati, la sua egemonia culturale, le sue case del popolo. Ma la sinistra non ha riconosciuto, decifrato e (tanto meno) governato alcunché: lasciamo stare le società direttamente amministrate dai suoi apparatniki, dov’è stata (e rimane) al potere grazie a un uso sistematico del terrore, e guardiamo alle società libere, per esempio all’Italia, dove la sinistra è andata incontro alla più totale disfatta ideologica e politica. Non ha perduto soltanto il consenso del proletariato, e abbracciato la causa del pubblico impiego e dei ceti parassitari, ma ha sacrificato ogni ratio politica, la sbandierata virtù sulla quale aveva fondato tutte le sue pretese egemoniche, sull’altare dei calcoli più spudorati e dei pregiudizi più miserabili.È stata per decenni al servizio della politica estera sovietica, furiosamente antidemocratica, e per decenni ha sorvolato sulla Shoah, questione centrale del nostro tempo, rubricando lager e camere a gas alla voce «questione ebraica» ereditata da un frettoloso pamphlet di Karl Marx (L’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dal giudaismo). Storica delle culture totalitarie, Alessandra Tarquini dedica al rapporto tra la sinistra italiana e gli ebrei il suo ultimo libro: Cent’anni di storia della sinistra e dell’ebraismo italiani, dal 1892 al 1992, da Filippo Turati a Bettino Craxi, dal «cosmopolitismo» secondo il canone stalinista, alla nascita d’Israele e al «palestinismo», dal crollo del Muro di Berlino a Tangentopoli e Desert Storm.
All’origine, quando si consuma la rottura politica e organizzativa tra socialisti e anarchici, i bakuninisti da una parte e i marxisti dall’altra, il socialismo italiano è ancora sotto l’effetto dell’affare Dreyfuss e appare schierato con la nascente opinione pubblica europea che si è battuta contro l’antisemitismo dell’Armée (e del popolo francese). Filippo Turati e il socialismo moderato continueranno a combattere l’antisemitismo, che tuttavia s’insinuerà nelle file del movimento proletario d’emancipazione attraverso i sindacalisti rivoluzionari seguaci di Georges Sorel, maestro di Benito Mussolini e anche un po’ di Antonio Gramsci, nonché primo dei filosofi, diventati presto legione, che si richiameranno contemporaneamente a Marx e Friedrich Nietzsche. Sorel associa «la diffusione della cultura ebraica alla decadenza della società occidentale. Per lui la diffusione dei motivi ebraici è uno dei sintomi intellettuali («al pari del modernismo, del riformismo, dell’umanitarismo e del sistema di idee che li sintetizzava, ossia l’aborrita democrazia») della progressiva degenerazione della società borghese».
Suonano, per il momento, anche altre campane. Ateo e socialista, il medico e antropologo Cesare Lombroso afferma d’essere un «sionista perché sono ebreo e perché, come ebreo, credo alla rigenerazione della nazione ebraica. E ciò non può avvenire che sul suolo da cui si è propagata la luce sul mondo intero».
Quanto alla socialdemocrazia russa, ribattezzata «partito comunista» dopo il colpo di stato bolscevico, di sionismo non ne vuol sapere. Stalin detta la linea nel suo saggio sulla questione nazionale: «Che cos’è questa nazione ebraica, composta d’ebrei georgiani, daghestani, russi, americani e altri, una nazione i cui membri non si comprendono l’un l’altro perché parlano lingue diverse, vivono in diverse parti del globo, non si vedono mai tra loro, non agiscono mai congiuntamente, né in tempo di pace, né in tempo di guerra?» Franchising del partito russo, il Partito comunista d’Italia deve fare buon viso a eventi che anticipano Hitler. «Nel settembre 1919», per cominciare, «viene chiuso l’Ufficio centrale per il sionismo e migliaia di sionisti, negli anni seguenti, sono arrestati come controrivoluzionari. Nel 1932 i comunisti creano il Birobidzhan, una regione autonoma nel cuore della Siberia, sorta di Palestina sovietica a 8 mila chilometri da Mosca, dove vengono inviati 50 mila ebrei ed è messa al bando la lingua ebraica, scelta dai sionisti come linguaggio unificante della nuova nazione, ma definita dai comunisti «lingua della sinagoga» e sostituita per decreto con lo yiddish, la lingua del proletariato ebraico.
Non c’è più bisogno di rivoluzionari ebrei, cosmopoliti, sradicati e internazionalisti. Presto s’abbatte su di loro la scure delle purghe staliniane e dell’antisemitismo. In Italia, i comunisti applaudono. A Torino, nel marzo del 1934, la polizia arresta quindici membri di Giustizia e Libertà. Sono tutti ebrei, e qualcuno lo fa notare. Ciò desta lo sdegno dell’Avanti, in quel momento organo dei massimalisti filosovietici: «È triste che l’opinione pubblica si commuova quando le vittime sono persone d’alta condizione economica e vittime d’odi religiosi. Le vittime proletarie non hanno – e neppure sempre, ahimè! – che la solidarietà della loro classe».
Quando entrano in vigore le leggi razziali la sinistra in esilio vaneggia che il fascismo adotta «le leggi razziali per «proclamarsi nemico del capitale» e amico del popolo, poiché in Italia gli ebrei appartengono «tutti alla borghesia, spesso alla grossa borghesia»». C’è la guerra, la guerra finisce, e «Natalia Ginzburg pubblica sull’Unità un articolo [su Auschwitz] in cui, malgrado la persecuzione subita in quanto ebrea e antifascista, e malgrado la vicenda di suo marito Leone, torturato a morte in carcere a Roma nel 1944, elimina qualunque riferimento all’antisemitismo [e non] menziona i suoi correligionari».
Sono gli anni del neorealismo, ma per quanto attento alle questioni sociali il cinema italiano non spreca un fotogramma per raccontare l’antisemitismo, i rastrellamenti e le deportazioni, le leggi razziali. Già regista di regime, Goffredo Alessandrini gira L’ebreo errante con Vittorio Gassman nella parte dell’immortale Asvero, che alla fine del film, deportato in un campo nazista, riscatta le proprie colpe (millenni prima, non era stato gentile con Gesù) sacrificandosi per gli altri deportati. Secondo l’Unità, l’idea del film non è «malvagia: il riscatto della biblica maledizione che incombe sul popolo ebreo (tramandata dalla leggenda dell’ebreo errante) per mezzo del sacrificio del sangue da esso sostenuto nel corso della recente guerra».
Nel 1954 esce la traduzione del Diario di Anna Frank e Attilio Bertolucci lo recensisce senza accennare neppure per sbaglio alla Shoah e all’antisemitismo. Se questo è un uomo viene «rifiutato dai consulenti della casa editrice Einaudi, Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, convinti che il tema non interessi i loro lettori». Fascistissimo, poi comunista, il Premio Nobel Salvatore Quasimodo, scrive Auschwitz, poesia antinazista, e contemporaneamente, «sul quotidiano Le ore, parla «della potenza incontestabile finanziaria degli ebrei» e della loro incapacità di provare senso del dovere e lealtà patriottiche». Lotta Continua, nel 1973, farnetica che «l’ombra del nazismo si stende su quella specie di soluzione finale alla quale Israele ormai sembra puntare: l’eliminazione del problema palestinese per mezzo dell’eliminazione fisica dei palestinesi stessi».
Filoisraeliano negli anni del centrosinistra, il partito socialista diventa antisraeliano, e fortemente palestinista, con la segreteria Craxi (che da un lato abbraccia la tradizionale politica estera italiana, schierata con i paesi arabi fin dai tempi di Mussolini «Spada dell’Islam», e che dall’altro proietta sull’Olp e su Arafat le fantasie mazziniane e garibaldine del neosegretario). C’è una svolta con «la Guerra del Golfo scatenata dall’invasione del Kuwait», quando «Craxi non esita a scrivere all’ambasciatore israeliano una lettera in cui esprime la vicinanza dei socialisti». S’apre un dibattito anche «nel Pci» e un esponente del partito, Piero Fassino, dopo il terzo attacco missilistico di Saddam sulle città israeliane» ammette che «la soluzione del conflitto mediorientale, e la possibilità di costruire una nazione palestinese, passa attraverso la legittima aspirazione dello Stato ebraico a vivere in sicurezza».
Da allora alti e bassi, soprattutto bassi. Nei giornali e nei talk show impazza la retorica islameggiante e si continua a confondere l’antisemitismo col «sovranismo leghista» (ma non col populismo pentastellare, dove antisemitismo e filojihadismo sono di rigore). A sinistra, conclude Alessandra Tarquini, in questi ultimi centotrent’anni, da Turati al Conte 2, c’è stata soprattutto indifferenza e incomprensione della «questione ebraica», bandiera sbrindellata del marxismo volgare, ed «è proprio questo il problema. È sufficiente affermare che in Marx e nel marxismo non c’è antisemitismo, ma indifferenza rispetto alla questione ebraica?
L’indifferenza non è una scelta, tanto più quando riguarda milioni di morti e un fenomeno di massa come la Shoah?»
(Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, il Mulino 2019, pp. 309, 22,00 euro).