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 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

Il fascino indiscreto dell’ananas

Frutto ambitissimo, delizia di Corte, reale fin nell’aspetto con la sua corona di giovani foglie, l’ananasso (Ananas comosus) ha incarnato per secoli il mito dell’esotico, emblema di un potere sconfinato su terre vecchie e soprattutto nuove. Da allora molto è cambiato, la profferta a suon di ingrossi e supermarket ha decisamente svilito la rarità della proposta. 
Già i fratelli Roda nella seconda metà dell’800 lamentavano l’invasione di «bellissimi frutti conservati in eleganti scatole di latta da Ceylon o da Singapore»: nulla a che vedere con gli ananas freschi in quanto a gusto e profumo. Sin da quando Cristoforo Colombo «scoprì» l’ananasso a Guadalupa (in realtà è originario delle rive del Paranà, tra Brasile e Paraguay, dove gli indigeni lo chiamavano nana, da qui il nome) furono infiniti i tentativi per coltivarlo nei nostri climi. Tutti falliti, finché l’olandese De la Court mise a punto i primi accorgimenti in serra calda a metà ’600
Record nazionali
Poi fu un susseguirsi di record nazionali: a Versailles il Re Sole non riuscì mai ad averli, con enorme dispiacere di Madame de Maintenon che ne ricordava la dolcezza dalla sua infanzia in Martinica. Fu il successore a riuscire nell’impresa: con Luigi XV se ne contarono oltre ottocento piante e più di mille franchi erano spesi ogni anno per alimentare le stufe. 
In quali Paesi
L’Inghilterra fu maestra di acclimatamenti e nella gelida Scozia esiste addirittura una follia settecentesca, la Dunmore Pineapple, che è una serra la cui cupola è un’enorme ananas, quattordici metri d’altezza, con tanto di occhi che seguono, proprio come nell’originale, la nota serie di Fibonacci.
L’Italia non fu da meno, c’è chi dice addirittura che gli antichi romani già conoscessero l’ananas (senza coltivarlo però!) e i mosaici di Palazzo Massimo a Roma sembrerebbero misteriosamente confermarlo. Celebri furono i frutti ottenuti a Boboli sotto i Lorena, ne rimane traccia nei ferri battuti della citroniera o nel nome di uno dei suoi più rinomati giardini, e nell’Orto Botanico di Padova una delle coppie di acroteri che sormonta i cancelli li raffigura con dovizia di dettagli. 
Il manuale piemontese
Anche nel morigerato Piemonte il richiamo dei tropici si fece sentire: i fratelli Roda scrissero un dettagliato libricino intitolato Manuale pratico sulla coltivazione degli ananassi del 1862. L’aggiornatissimo parco di Racconigi era lo scenario ideale per tentare l’impresa, poi i successi continuarono a Monza. Prima di loro un certo Brocchieri, giardiniere in casa Perrone ad Ivrea, era riuscito a far fruttificare le piante senza bisogno di serre riscaldate, dove gli ananas vivevano in piena terra. La novità, meno cara ma di certo non meno laboriosa, consisteva in cassoni leggermente infossati nel terreno e chiusi da vetrate mobili volte a mezzogiorno: al loro interno, adagiati come botaniche principesse sul pisello su strati di letame e terriccio, gli ananas crescevano in vaso. 
I segreti del passato
Il tepore era garantito dalla fermentazione di trucioli inumiditi, deposti in un letto alla base del tutto e rinnovati ogni due o tre mesi. Sul punto ciascuno aveva la sua versione: il Piccioli, giardiniere dei Panciatichi a Firenze, preferiva le ghiande della vallonea (Quercus ithaburensis macrolepis). Coltroni di tela, di lana o di paglia e pannelli di legno venivano poi messi a difendere dal freddo, ombreggiare o respingere la grandine. 
Se in serra calda gli ananassi fruttificavano in tre anni, nei cassoni ce ne mettevano di più. Un secolo dopo i Roda perfezionarono la tecnica: le piante arrivarono a produrre in due anni, uno solo in serra (proprio come in natura). 
Nei cassoni il letto era fatto di letame e di erbe e foglie secche, rifatto tutto l’anno persino in giugno, poi uno spesso strato di segatura nel quale venivano conficcati i vasi. La ricetta per il terriccio era delle più elaborate: terra d’erica o di castagno, letame maturo, residui dei pozzi neri, sabbia e terra di foglie. Poi a concimare di tanto in tanto guano, «sughi di stalla e colombine (letame di piccionaia)». L’innaffiamento seguiva regole scrupolose: acqua di fiume o piovana, mai più fredda della temperatura dei cassoni, vaporizzata di tanto in tanto sulle foglie. Le nuove piante si ottenevano dalla corona o dai rampolli che crescono all’ascella delle foglie, poi nell’estate del secondo anno venivano trapiantate in piena terra per fruttificare. 
Ottanta varietà
Le varietà erano più di ottanta, i Roda ci elencano le migliori: nomi ricchi di fascino, come ananasso della Provvidenza o Pavonazzo di Giamaica. Se poi le povere piante cadevano vittime di qualche insetto le cure assomigliavano a veri sevizi: spennellate col tabacco, ubriacate con l’alcol di mele, sottoposte a roventi calure o alle esalazioni mefitiche dei letamai. I due fratelli progettarono anche un nuovo tipo di cassone, tagliato a metà orizzontalmente: molto più leggero da maneggiare e quando il sopra non serviva poteva venire usato per coltivare forzatamente fragole, poponi e sparagi, quelli pallidi e bianchi del nord. I tempi erano quelli.