La Stampa, 14 febbraio 2020
Intervista a Chiara Mastroianni
Il problema, dice Chiara Mastroianni, è tutto in quel modo italiano di usare il «lei»: «Ho fatto tanto per imparare bene la grammatica italiana, ma poi ho capito che quando dai del lei a un italiano, penserà subito che hai la puzza sotto il naso. Tu vuoi essere gentile e lui ci resta male. In Francia, invece, è il contrario. Se uno da il tu troppo velocemente appare maleducato. La binazionalità rende un po’ schizofrenici, e io spesso faccio "gaffe". Sembro fredda, in realtà è solo perchè uso il lei». Con un colpo di spugna, Chiara Mastroianni cancella tutta l’impalcatura con cui, fin da piccola, ha dovuto fare i conti. Figlia d’arte, che più d’arte non si può, parla spedita con quella «r» moscia che, a suo parere, le ha impedito rapporti più intensi con il nostro cinema, e racconta le lezioni di italiano con il padre: «Ripetevamo insieme i verbi, compreso quel passato remoto che gli piaceva tanto, diceva sempre "ma perchè non lo usiamo più? E’ così bello"». Di set in set, venendo a patti con eredità pesanti, Mastroianni ha costruito una carriera piena di donne d’oggi, talvolta sofferenti, ma anche, come nel caso dell’Hotel degli amori smarriti di Christophe Honoré (dal 20 nei cinema con Officine Ubu), di simpatiche «malafemmine». Nel film è una docente universitaria che tradisce il marito (Benjiamin Biolay), lo abbandona, e si trasferisce in un albergo davanti casa, dove, tra sogni e ricordi, rivive la sua educazione amorosa.
Che cosa l’ha attratta di questo personaggio?
«Prima di tutto il piacere di lavorare ancora con Christophe, con cui si è stabilita un’intesa molto forte. E poi, finalmente, la possibilità di interpretare una donna con tutti gli stereotipi che, in genere, vengono attribuiti agli uomini, una che vive le sue passioni in modo libero, coltivando, senza scrupoli, storie parallele. Insomma, una donna in malafede, un genere che, nella vita reale, odio, ma è molto divertente da interpretare. Ho sempre fatto donne forti che finiscono male, suicide, cornute, mollate dal marito. Direi che questo è un film nutrito dal #MeToo, non perchè sia femminista, ma perchè Maria non è una vittima. Se fosse un uomo si direbbe che è un dongiovanni, per una donna non c’è un termine adatto, in francese l’unico che riesco a trovare è "zoccola"».
In gran parte del film recita avvolta in un lenzuolo. Difficile?
«Sì, non è stato facile, hai l’impressione di essere l’unica svestita, in mezzo ad altri che non lo sono. Comunque ho superato tutto, grazie alla complicità che Honorè stabilisce con gli interpreti, è molto moderno e coerente, fa film intelligenti senza essere intellettuale».
Quando ha capito che recitare era il suo mestiere?
«Molto presto, ma ho un fratello più grande me che aveva lasciato l’università per recitare e mia madre si era molto incavolata. Lei sperava che studiassi... si preoccupava, sia lei che mio padre hanno sempre ammesso con umiltà di aver avuto destini fortunati, che, però, non capitano a tutti gli attori. Per questo continuavano a ripetermi "Non guardare noi, non pensare che vada sempre così". Ho provato a studiare, ma poi, grazie al mio amico Melvil Poupaud, ho capito che dovevo farmi coraggio, buttarmi, e vedere come andava».
E i suoi che hanno detto?
«Mia madre, francese, cartesiana, non era per niente contenta. Lei gestiva la parte difficile, il rapporto quotidiano con i figli. Mio padre, invece, era la festa, sempre solare. Era felice: "che bello, è come se avessimo una salumeria e tu adesso mi vieni ad aiutare in negozio"».
Cosa diceva di lei come attrice?
«Diceva: "hai la bocca come il cappello dei carabinieri", sembri sempre arrabbiata. E, in effetti, la mia è una faccia malinconica, non a caso mi propongono ruoli drammatici».
Che rapporto ha con il cinema italiano?
«Ho girato con Francesca Comencini, mi è piaciuto tantissimo e poi, francamente, non mi è più capitato, forse l’ostacolo è l’accento. Sarei felice di lavorare con Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, e sono impazzita per Il traditore di Marco Bellocchio, Favino è incredibile».
È il centenario della nascita di Fellini. Che ricordo ne ha?
«L’ho conosciuto che ero piccolissima. A 6 anni, sul set della Città delle donne sognavo di salire sullo scivolo della scenografia. Una volta mi chiese di far parte di un gruppo di ragazzini che dovevano fare le pernacchie a Marcello. Poi ci ripensò, mi disse che non potevo fare le pernacchie a mio padre, così, quando girammo, al posto di mio padre, si mise lui. Il film, poi, l’ho visto solo a 13 anni. E ho scoperto che quella scena Fellini l’aveva tagliata. Un bell’insegnamento».