Corriere della Sera, 14 febbraio 2020
Michel e il suo cuore nuovo
Entrare nel padiglione 23 del policlinico Sant’Orsola, a Bologna, mi provoca sempre una sorta di meraviglia. Perché è il polo cardio-toraco-vascolare: qui si riparano i cuori. Mi torna in mente che il battito è il primo suono che conosciamo di nostra madre, di un figlio. So di non attraversare il reparto maternità ora, eppure l’emozione è la stessa: Michel ha quasi 19 anni, ma è come se fosse appena venuto al mondo.
Alla fine di un corridoio lui mi si para davanti. Lo noto subito: non ha più la valigetta nera a tracolla e il carrello delle flebo. Cammina come se danzasse.
Dove l’hai lasciata? Gli chiedo per scherzo indicando la sua spalla vuota.
«La macchinetta?». Ribatte divertito, facendomi strada non più verso la stanza in cui è stato ricoverato per due anni, ma in una sala d’aspetto libera e piena di luce. «Mi credi se ti dico che me la volevo portare a casa? L’ho anche chiesto, solo che non me l’hanno potuta lasciare».
La macchinetta è il HVAD, o cuore artificiale. Quando lo avevo conosciuto, all’inizio dell’autunno scorso, Michel pesava 37 kg e se lo portava appresso, con cavi e batterie sempre a portata di mano. Se passeggiava anche solo per cinque minuti intorno al padiglione, dopo trascorreva l’intera giornata a letto. Non serbava rancore per questo, sia chiaro: dipingeva, leggeva, aveva scoperto che «con l’arte puoi dare il meglio anche quando soffri» e che «chiedermi perché io me ne sto in ospedale mentre gli altri sono fuori a divertirsi, non serve, anzi, mi avvelenerebbe l’anima». Penso che è tipico di Michel: perdonare, volere bene alle difficoltà, scovarci dentro un’occasione.
Dipingeva cuori, quando le forze glielo permettevano. Faceva buon viso a cattivo gioco, incitava i compagni di reparto a resistere e a lottare. Ma la verità è che le cose non andavano troppo bene, e che mese dopo mese era sempre più debole. Che avrebbe dato chissà cosa per fare una corsa, una doccia, per frequentare la scuola come gli altri. Ma per vivere ci voleva un cuore nuovo. Il trapianto.
Adesso è qui che ride di fronte a me con tutto il corpo e sprigiona energia. Ha solo la mascherina davanti alla bocca: il suo sistema immunitario è ancora delicato. Prendiamo posto su due file opposte di sedie, con qualche metro di distanza di sicurezza. Dimmi cos’hai provato, gli chiedo subito, quanto ti hanno dato la notizia.
«Ero in bagno» risponde, «alle otto di sera mi sono piombati in camera e mi hanno consigliato di sedermi. Io ho intuito, ma sono rimasto in piedi».
Quando arriva un cuore, è come se si avverasse un prodigio. Un’imponente macchina ospedaliera si mette in moto, il tempo s’impenna, non c’è un minuto da perdere e bisogna subito prepararsi a nascere.
«Sono partiti in quarta con le analisi per verificare se il cuore e io eravamo compatibili, sono andati avanti tutta la notte» mi racconta, «e io mi sono addormentato».
Sei riuscito a dormire?
«Certo, solo che poi mi hanno svegliato alle 3, senza dirmi nulla. Mi hanno portato dritto in sala operatoria. Allora mi sono arrabbiato».
In realtà, come mi avrebbe raccontato in seguito il prof Gaetano Gargiulo che l’ha operato, e che Michel chiama Cardioimperator perché gli ha salvato la vita due volte, più che arrabbiato era teso. Voleva conoscere ogni dettaglio dell’intervento, aveva paura a separarsi dalla sua macchinetta, che era una prigione, certo, ma lo teneva anche in vita: era una certezza. Mentre questo cuore sconosciuto, che nessuno sapeva se avrebbe funzionato sul serio oppure no, era un’incognita assoluta.
«Dovevo stare sotto i ferri 4 o 5 ore, invece ne sono passate 15. Il HVAD si era così carnificato dentro di me che non voleva saperne di staccarsi».
E poi ti sei svegliato senza.
«Già» mi guarda negli occhi, «ancora oggi, che di settimane ne sono passate, non mi sembra vero di non averlo, di tornare qui al Sant’Orsola solo per i controlli, di non abitarci più. E di poter dormire sul fianco che voglio, camminare senza fermarmi, di essere libero».
Non sta fermo un minuto mentre parla. È seduto, si alza, si risiede. Quando era nato la prima volta, gli avevano diagnosticato una cardiopatia dilatativa del ventricolo sinistro congenita, che suonava come una condanna a morte. Ora assomiglia a un bambino che scopre cosa significa avere un corpo con cui esplorare il mondo, comunicare, perdere i confini.
Qual è stato il tuo primo pensiero dopo il trapianto?
«Una strana sensazione nel petto, all’inizio, come contenere una bellezza, una potenza. Poi mi è presa subito la smania che lo dovevo dire, che mi dovevo alzare, ma in terapia intensiva non ti fanno fare niente, non ti danno neppure il cellulare per scrivere agli amici. Quindi mi sono impegnato a reagire bene alle terapie, e in 20 giorni ero fuori».
Fuori dall’ospedale, in 20 giorni? Scuoto la testa. Scommetto che hai pure già corso.
«Subito, in questi stessi corridoi».
Per un istante lo immagino correre. Mi sembra quasi di sentirlo, questo cuore nuovo che gli batte nel petto.
«La ricerca sulle cardiopatie congenite sta facendo passi da gigante» mi dirà il professor Gargiulo, «in futuro nuove tecnologie ci permetteranno di aggiustare quasi ogni cuore. Ma il trapianto resta il dono straordinario che può guarire l’inguaribile. Ha una faccia della medaglia dolorosa, certo, ma è vita». La vita che vedo, finalmente spalancata di fronte a Michel.
Quanta fretta, quanta fame avevi?
«Troppa, e adesso non mi fermerò più» promette, «voglio scrivere un libro, viaggiare, e magari quest’estate riesco pure ad andare a Marina di Nova a fare il bagno». Il suo primo desiderio dopo l’intervento, mi aveva raccontato quando ci eravamo conosciuti. «Ma voglio anche spiegare a tutti cosa significa la donazione degli organi, aiutare chi è in attesa di trapianto. Non puoi vivere solo per te stesso, è questo che mi ha insegnato il dolore: che la felicità è un bene comune».
Vorrei alzarmi e dargli un bacio, ma mi trattengo. Michel è la persona più forte che abbia mai incontrato, ma occorre ancora fare piano, usare precauzioni finché il suo corpo non potrà difendersi al meglio.
Mi tornano in mente le ultime pagine di Riparare i viventi, quel romanzo eccezionale di Maylis de Kerangal che racconta il viaggio di un cuore da una morte a una vita, in sala operatoria, al secondo tentativo di farlo ripartire: «Pronti? Via! Allora, il cuore si contrae, un sussulto (...) poi pulsazioni regolari, stranamente rapide, che ben presto formano un ritmo, e il loro battito evoca quello del cuore di un embrione, quello che si percepisce durante la prima ecografia, ed è proprio il colpo iniziale che si fa sentire, il primo colpo, quello che segna l’alba».
Eccoci tornati all’inizio: la rinascita. «Festeggerò il mio compleanno due volte d’ora in poi» mi dice Michel prima di salutarci, radioso di gratitudine. Io lo seguo con lo sguardo mentre spicca il suo volo in una vita normale e prometto a me stessa che seguirò il suo esempio, farò buon uso del mio cuore. Perché, come mi ha insegnato, ciascun cuore non è mai solo nostro: batte per gli altri.