Avvenire, 14 febbraio 2020
Aldo Nove gioca a nascondino con Dio
Può darsi che il nome di Georg Trakl suoni oggi poco familiare anche ai lettori più attenti, benché le poesie di questo autore siano state riproposte abbastanza di recente dall’editoria italiana. Morto appena ventisettenne nel 1914, fu uno dei rappresentanti più inquieti dell’espressionismo letterario austriaco. Nei suoi versi circola un’aria di febbrile disfacimento che può ricordare alcuni disegni di Klimt e, più ancora, le figure spettrali di Schiele. È come se al suo sguardo la realtà si presentasse sempre in forma traslucida, vale a dire insidiata dall’ombra, sì, ma già percossa da una luminescenza più che terrestre. Caratteristico della mistica, del resto, è l’elevarsi a partire da una materia vile, quasi non ci fosse differenza tra “scarto”, “vanto” e “incanto” o, meglio ancora, tra il molto intuire e il molto sbagliare, come accade a “ogni essere umano”. Le citazioni non provengono da Trakl, ma dalla nuova raccolta di Aldo Nove, Poemetti della sera, all’interno della quale il poeta di Salisburgo riveste un ruolo tutt’altro che marginale: sua è l’epigrafe che accompagna uno dei componimenti più importanti del libro, “Il giorno della mia morte” («Un azzurro momento è puramente anima»), a lui è dedicata la ballata “Georg Trakl in Traum”, nella quale al paesaggio di una Milano onirica e ostile finisce per sovrapporsi la devastazione della guerra.La presenza di Trakl nei testi di Nove salta all’occhio, eppure non stupisce del tutto, così come non risulta inopportuno l’esercizio di “Parafrasi del primo canto dell’Inferno” nel quale l’endecasillabo dantesco si frammenta in versi brevissimi, quasi sincopati: «è la foresta / in cui s’arresta, / s’incrina // la collina, / declina la sorte / la testa e la perde». Ma l’elenco delle allusioni e dei rimandi è ancora più vasto, senza per questo risultare d’intralcio. A volte si tratta dell’inclusione letterale di interi brani, come nel caso della celebre Todesfuge di Paul Celan, altre volte si procede per via obliqua, come quando Nove prende a prestito un titolo dall’assai tradizionalista e controverso Julius Evola, ma solo per dedicare la sua “Rivolta contro il mondo contemporaneo” a un marxista – irregolare finché si vuole – quale Luciano Parinetto.
D’accordo, una lettura di questo tipo, che parte dal margine per indirizzarsi verso il centro, rischia di apparire eccentrica. In effetti è tutta la produzione poetica di Nove (che esordì in poesia poco più che ventenne nel 1989 per poi affermarsi come narratore nel 1996 grazie ai racconti di Woobinda) a collocarsi nel segno di un’eccezionalità che ha pochi precedenti nella poesia italiana. Mentre ci si addentra nei Poemetti della sera, in effetti, il paragone che più viene in mente è semmai quello con un altro artista irriducibile a ogni definizione, l’inglese William Blake. Mistico anche lui, non si discute, e visionario per costituzione, magneticamente attratto dall’immensità del creato ( A schemi di costellazioni si intitolava, non casualmente, una precedente raccolta di Nove) e desideroso di misurarsi con il dettato della Bibbia in un corpo a corpo che ricorda, di nuovo, alcune delle prove più riuscite di Nove. Si pensi al romanzo Tutta la luce del mondo, che nel 2014 riconduceva a una dimensione di meraviglia creaturale la vicenda di san Francesco d’Assisi, e più ancora a Maria, la bellissima sequenza poetica del 2007 che in parte ricapitolava il percorso compiuto fino ad allora, ponendosi però come punto di svolta e di rilancio.
Nel segno della madre si apre adesso la serie dei Poemetti della sera, con l’immagine dolorosa e magnifica di un decadimento fisico – ecco l’ombra di Trakl – che non esclude la consapevolezza che «tutto è / miracolo». Allo stesso modo, nel già ricordato e cruciale “Il giorno della mia morte” l’intonazione addirittura giocosa con cui viene registrato il compiersi della vita («Il giorno della mia morte / smetterò di morire») fa da preludio alla rivelazione finale: «Sarò il sapere che siamo / – tutti – / un’unica / rifrazione di Dio». In alcune occasioni la spiritualità di Nove sembra contraddire il realismo biblico («Tutto ciò che appare è illusione», si legge in “Non siamo mai nati non siamo mai morti”), in altre è la dimensione autobiografica a riaffermarsi, come in “L’attimo azzurro”, che una volta di più suggerisce la necessità di tornare alla purezza e alla saggezza dell’infanzia: «Ero / l’ignoto / a Viggiù, in provincia di Varese, io / ero le chiese, / le case, i respiri di tutta / la gente». Di particolare efficacia, nella sua apparente semplicità, è l’appello rivolto alle persone care, nella consapevolezza che «ogni nome imita la Terra» e «l’altro io di Dio / tace. Non ha / nome» perché «è Tutto, / non detto, / non pregato, nel grembo / dei secoli a venire». Questa unità indivisa è memoria di qualcosa che si è perduto («Noi siamo stati tutto / quando non eravamo / noi, eravamo / il / cielo») e insieme attesa di ciò che ancora deve mostrarsi. «Il cielo è dove giocano i bambini», scrive Nove. E Dio è, da ultimo, «l’incontrario della mente». Sarà per questo che, congedandosi, il poeta così si descrive: «Io sono un bambino / che gioca a nascondino / con Dio, cioè con sé stesso. / Sono l’adesso».