la Repubblica, 14 febbraio 2020
Ugly chic, la rivoluzione estetica del brutto
Quando ho iniziato, la scena era dominata dall’estetica del super-bello, aggressiva ed elaborata. E poi c’ero io, con le mie ragazze “brutte”. Mi hanno molto criticato all’epoca, e hanno continuato a farlo per anni», ha raccontato Miuccia Prada, inventrice e profetessa dell’ ugly chic, al suo successore in pectore, Alessandro Michele di Gucci. Lo ha ricordato lo stesso stilista in una intervista al T Magazine.
È vero, le sue donne fecero scalpore: in tanti non si capacitavano di cosa potesse esserci di desiderabile in quelle scarpe pesanti, nelle gonne a pieghe quasi mortificanti, nelle stampe che parevano prese da un catalogo di tappezzeria dei peggiori anni 60. Dubbi legittimi, ma non tenevano conto di una cosa: Miuccia Prada ha spiegato alle donne come vestirsi per sé, e non per gli altri. Ha dimostrato che la corsa alla perfezione imperante spesso nasceva solo dalla necessità di piacere agli altri; lei aveva creato un’alternativa. Idea giusta: le donne l’hanno capita subito, trasformandola da nicchia a nuovo linguaggio estetico di riferimento. Non è un caso che in quegli stessi anni siano esplose anche Kate Moss, minuta nemesi delle top model, e la strana Kristen McMenamy (Gianni Versace all’inizio non la voleva, liquidandola con un “è brutta”, ma poi divenne la sua testimonial); e infatti, l’ ugly chiccontemporaneo nasce proprio da lì.
Se oggi siamo dove siamo è perché gli anni 90 dominano il costume, con tutto quel che ne consegue. «È lo zeitgeist del momento», conferma Reichart. «La gente, stanca dell’iper-consumismo, guarda a un immaginario più di sostanza. Credo che la creatività nella moda sia finita con i 90, dopo è stato solo un rimescolamento del passato. Evidentemente non sono l’unico a pensarlo visto il revival in corso, Birkenstock compresi». Le radici sono quelle: dai vestitini da educanda portati con le scarpe ortopediche ai jeans larghi a vita alta, i mom jeans, fino alle scarpe da ginnastica bianche e grosse, le dad shoes(il fatto che i genitori siano tanto nominati meriterebbe un approfondimento). A inventare queste ultime è stato uno dei profeti del brutto che piace, Demna Gvasalia: lui ha tradotto i ricordi dell’infanzia difficile in Georgia attraverso il suo Vetements prima e Balenciaga poi, offrendo un’estetica che della sgradevolezza ha fatto una costante. Per dire: Gvasalia ha avuto pure il coraggio di proporre le Crocs, le ciabatte di plastica al di là del bene e del male, in versione couture.
Un altro nome in tendenza da seguire è Batsheva con i suoi vestiti simil Casa nella prateria, mortificanti il giusto. Ma il caso da manuale è Bottega Veneta, il suo nuovo direttore creativo, il trentaquattrenne Daniel Lee, è stato capace di dare vita a una donna molto forte e a tratti molto ostica: scarpe squadrate di rete, borse sproporzionate, vestiti così rigidi da non seguire nemmeno le linee del corpo. Accolte dalla perplessità di molti (come Prada all’epoca) le sue collezioni ora si vendono come il pane, solo molto più caro; Lee ha chiaramente colto la voglia del pubblico di uscire dai soliti schemi, fosse pure solo per abbracciarne un altro. Ma esaminiamolo più da vicino, il successo dell’ ugly chic. Come con Prada, la sua presa sulle donne nasce perché si rivolge a loro, e solo a loro.
Il messaggio è che non ci si veste per obbedire ai canoni stabiliti dalla società (leggasi, gli uomini), ma per piacere a sé stesse, al massimo al pubblico femminile; per essere ritenute giuste, cool. E l’attualità dà man forte a questa interpretazione: l’onda lunga del # Metoo si ritrova anche qui, affiancata da neo-femminismo e politicamente corretto pompati all’ennesima potenza. Tutto ciò che potrebbe apparire minimamente sessista è messo al bando. E se nel caso di Birkenstock c’è pure il fattore sostenibilità da considerare – «Noi nasciamo ecologici: molti brand vorrebbero collaborare con noi solo per ripulirsi l’immagine» —, il fatto che la riuscita dell’ugly chic oggi sia dovuta anche a un’ipocrisia di fondo (adeguarsi cioè ai nuovi codici, senza crederci davvero) non stupisce: la moda è da sempre molto ipocrita. Basta dare un’occhiata a Instagram, dove il brutto bello impera: chi ha fatto dell’apparire il proprio lavoro ha capito che essere sexy e sorridente non basta più.
Serviva qualcosa di diverso, che saltasse all’occhio: e cosa c’è di più intrigante di un look volutamente sbagliato, che a una seconda occhiata si rivela invece molto alla moda? Non ci si può più fidare nemmeno del brutto.