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 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

Il pozzo senza fondo di Alitalia

Per far volare quei bestioni correva a fiumi, il kerosene. Fiumi d’oro. Basta dire che, dopo 11 anni, i commissari della vecchia Alitalia, quella saltata in aria nel 2008, sono riusciti a farsi restituire 30 milioni dai petrolieri che si facevano pagare caro, e in anticipo. Poca cosa, rispetto agli sprechi colossali della compagnia aerea più pazza del mondo. Un’inezia, addirittura, al confronto dei miliardi (sette, dieci?) buttati nella sua voragine immensa dallo Stato, che imperterrito continua a gettarli con supremo spregio del buonsenso, com’è successo a giugno scorso. Mentre i petrolieri staccavano l’assegnuccio, il governo Conte (uno) metteva i 650 milioni necessari per continuare a far volare i jet di una compagnia che bruciava più di un milione al giorno a carico delle bollette della luce. Cioè prendendo i soldi dalla Cassa per i servizi energetici, ovvero il fondo che serve a mitigare i rialzi eccessivi del costo dell’elettricità. Tanto da far scattare l’allarme all’Authority per l’Energia che paventando “ripercussioni negative su famiglie e imprese” non ha mancato di spedire una preoccupata segnalazione al Parlamento. Ovviamente caduta nel vuoto. Che se non è proprio come vent’anni prima, quando non si badava al costo del pieno di benzina, poco ci manca.
Ma tant’è. Pubblica o privata, non c’è azienda che incarni meglio dell’Alitalia vizi, sperperi e privilegi di un intero Paese. Il sincronismo è impressionante. Dal luglio 1988, quando il presidente dell’Iri Romano Prodi silurò Umberto Nordio, al 17 dicembre 2019, insediamento del nuovo commissario Giuseppe Leogrande, al timone della compagnia si sono avvicendate 21 diverse gestioni. Con 21 differenti governi: da Ciriaco De Mita a Giuseppe Conte (due). Presidenti e amministratori delegati sono caduti come mosche fra colpi bassi, furiosi scontri sindacali, dimissioni, defenestrazioni e azioni di responsabilità. Non senza passaggi grotteschi, come quando si arrivò a totalizzare nel consiglio di amministrazione ben 17 persone scelte dai politici: fra di loro perfino due senatori in carica. Uno di destra e uno di sinistra. Mentre un pilota esponente della commissione Trasporti della Camera, l’ex calciatore della Lazio campione d’Italia Luigi Martini, deputato di An, continuava di tanto in tanto a guidare gli aerei di linea per non perdere il brevetto. E mentre la società di sua moglie aveva l’incarico di fare per l’Alitalia il “monitoraggio parlamentare”. Gli azionisti, intanto, entravano e uscivano come da un albergo di lusso. Con l’Alitalia del presunto salvataggio berlusconiano si misurò la crema dell’imprenditoria italiana, da Marcegaglia ai Riva dell’Ilva, a Colaninno, a Pirelli, ai Benetton. Patrioti, come li chiamò il Cavaliere, che patriotticamente gettarono la spugna.
Poi gli arabi, con relativo stuolo di supermanager: l’ultimo in ordine di apparizione, australiano. Ma a giudicare dai risultati, l’idea dei magistrati che ora indagano, secondo i quali il vero disegno andava ben oltre la sana e prudente gestione di una società, sconfinando in affari loschi, non pare campata per aria. Nemmeno con gli arabi, come nei vent’anni precedenti, l’Alitalia ha mai chiuso un bilancio in utile.
E anziché mettere mano seriamente a un’emorragia senza soluzione di continuità e a dispetto di ogni proprietà, nel silenzio più assoluto, facevano pagare assurdi privilegi di comandanti e assistenti di volo cassintegrati ai viaggiatori. Con una leggina piazzata nel 2004, mentre la crisi era già stabilmente al suo apice, si decretò una tassa di 3 euro a biglietto per alimentare un fondo compensativo. Tale da garantire ai piloti in cassa integrazione trattamenti da nababbi: nel 2017 alimentava ancora 56 assegni di oltre 20 mila euro al mese. Questa storia, del resto, è la prova lampante che non tutti i mali vengono per nuocere. Anche se pagano i contribuenti, qualcuno ci guadagna sempre. Per esempio chi deve gestire il crac, i loro consulenti, esperti e intermediari. E quando il crac è doppio, c’è doppio lavoro.
Alitalia è l’unica compagnia al mondo ad avere due amministrazioni straordinarie contemporaneamente aperte. La prima delle quali sta per compiere 12 anni, ed è una specie di assicurazione sulla a vita per intere categorie professionali. Fra gennaio e giugno 2019 se ne sono andati 946 mila euro per spese legali e consulenze, al ritmo di un paio di milioni l’anno. Ma dal 2008 si devono ancora chiudere 7 filiali delle 60 in giro per il mondo, in Paesi problematici come Libia, Nigeria e Venezuela. E i commissari dicono che serviranno ancora due anni almeno. Poi la vendita degli immobili rimasti, ma che – a quanto pare – nessuno vuole se è vero che in quattro anni l’offerta minima è stata ridotta a quasi metà. Infine, il contenzioso: immenso. Ben 107 cause revocatorie, 34 per le somme pagate dopo l’insolvenza, quindi le pendenze con il personale. Così la data prevista per la “definizione dei contenziosi”, senza cui la prima amministrazione straordinaria non si può archiviare, viene definita dai commissari semplicemente: “Non stimabile”. Poi c’è la seconda amministrazione straordinaria, e sarà un nuovo film. Auguri a tutti noi.`