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 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

Le rotte del contagio

Restiamo in guardia. L’epidemia può ancora prendere qualsiasi direzione», aveva avvertito il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Ma quale direzione, esattamente? Provano a prevederlo in molti, fra gli epidemiologi. L’università di Berlino e l’Istituto tedesco Koch, ad esempio, ricostruiscono giorno per giorno le rotte più probabili del virus. Thailandia, Giappone e Corea del Sud sono – non a sorpresa – i Paesi più a rischio. Al di fuori della cintura che circonda la Cina, le persone infettate approderanno con maggiore probabilità negli Stati Uniti e in Australia. La via di contagio più agevole per l’Europa è la Germania, in particolare Francoforte. Segue la Gran Bretagna e, subito prima della Francia, l’Italia, con i due aeroporti di Roma in primis e Milano poi. Le rotte stimate del virus coincidono con i collegamenti aerei rimasti aperti. E non è un caso che la probabile porta d’ingresso del virus in Africa sia Addis Abeba: la Ethiopian Airlines è la più importante linea aerea del continente a mantenere i voli con la Cina. «Uno dei nostri mercati più forti», ribadisce la compagnia, resistendo a ogni pressione e invito alla prudenza. La decisione fa tremare l’Oms. Quando Ghebreyesus, il 31 gennaio, dichiarò il coronavirus «emergenza globale» si spiegò così: «Il motivo principale non è quel che accade in Cina, ma quel che accade fuori. Temiamo che l’epidemia si diffonda in Paesi con sistemi sanitari fragili».
In Africa vive circa un milione di cinesi, in Cina studiano 80mila giovani africani (5 mila nell’Hubei), Pechino è il primo partner commerciale del continente e 8 voli diretti al giorno uniscono le due regioni, per un totale di un migliaio di passeggeri. Eppure nessun caso di Covid-19 è stato diagnosticato in Africa. Sapendo che il coronavirus è abilissimo a viaggiare fuori dalla copertura dei radar e che fino a lunedì scorso in tutto il continente c’erano solo due laboratori in grado di effettuare la diagnosi (in Senegal e Sudafrica), le ragioni per essere preoccupati ci sono tutte. «Una diffusione dell’epidemia in Africa potrebbe avere effetti gravi – ha ripetuto il ministro della Salute Roberto Speranza – I loro servizi sanitari sono molto più fragili di quelli europei». Il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, l’aveva confermato: «Non abbiamo certo la capacità di costruire un ospedale in sette giorni. Dobbiamo fare di tutto per tenere questo virus lontano».
Finora i 32 casi sospetti registrati in Africa sono tutti risultati negativi. Alcuni campioni sono stati spediti a Parigi per il test, ma l’Oms ha promesso che i laboratori muniti di kit per la diagnosi saliranno a 24 entro il fine settimana. «Al momento siamo a 13, il rischio è certo alto, ma ci si sta organizzando rapidamente», spiega Vittoria Colizza dell’Inserm, l’Istituto statale di ricerca medica in Francia, coordinatrice di uno studio che valuta il rischio di epidemia in Africa, pubblicato su MedRxiv.
Per ora le principali precauzioni riguardano gli screening negli aeroporti. Sfruttano protocolli e strumenti messi a punto per Ebola. «Ma basta un malato con sintomi blandi, o che abbia preso un antipiretico, per sfuggire ai controlli». Dai tempi della Sars, che nel 2003 toccò l’Africa con un unico caso sugli 8 mila totali, «le connessioni con la Cina sono aumentate del 600% – prosegue Colizza – Il rischio d’importare il virus è alto. Ma lo è soprattutto quello di non riuscire a circoscriverlo, una volta arrivato».