Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 14 Venerdì calendario

Intervista a Dolce & Gabbana

Complementari «per passione e non per business». Nel quartier generale di Dolce&Gabbana, a Milano, gli stilisti Domenico Dolce, 61 anni, e Stefano Gabbana, 57, sono circondati di abiti, brocche e calici in ceramica siciliana, divani in velluto, quadri che li riproducono in versione pop e una coppia di statue, a grandezza naturale, di santi benedicenti. «Sono San Domenico e Santo Stefano – spiega Dolce – e ci somigliamo, tranne per il fatto che dovrei farmi crescere la barba! Il primo è morigerato, vestito di bianco e nero. L’altro è proprio come lui (dice sorridendo indicando Gabbana), abbigliato in modo sfarzoso. Solo che Santo Stefano è finito lapidato: speriamo che al mio socio non capiti la stessa sorte». Dal 1980 collaborano fianco a fianco, la prima sfilata è del 1985. Uno inizia un pensiero e l’altro lo termina.
Difficile lavorare a quattro mani?
SG: «Naturale. Quando ci siamo conosciuti lui era a capo dell’ufficio stile di Giorgio Correggiani e io ero un assistente. Ci siamo semplicemente trovati».
DD: «Abbiamo avuto un legame sentimentale forte, che ora prosegue in un rapporto di amicizia unico. In questo lavoro c’è sempre bisogno di un confronto vero».
Chi fa cosa?
DD: «Le decisioni importanti le prendiamo insieme ed è bello anche lo scontro di opinioni. A livello pratico, controlliamo tutto e ci dividiamo i compiti. Lui si occupa della parte comunicazione e fragranze. Io di modellistica e sartoria».
Vi confondono ancora?
SG: «Spesso. A me non importa: vuol dire che il marchio è più forte di noi. Ma a lui scoccia».
DD: «Mi dà solo fastidio quando l’errore è di un addetto del settore moda. Vuol dire che è superficiale».
Come avete imparato le basi della sartoria?
DD: «Ho rubato con occhi e mani da mio padre, che era sarto a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo».
SG: «Io non so ancora cucire, ma tagliare o gessare l’ho imparato da lui. All’inizio non avevamo i soldi per una modellista o una macchinista e dovevamo fare tutto noi».
La passione per la manualità state cercando di trasmetterla ai giovani con le vostre Botteghe di Mestiere?
DD: «Dal 2012 abbiamo creato dei corsi di formazione professionale. Ci serviva nuova manodopera esperta con l’avvio dell’alta moda, dell’alta sartoria e dell’alta gioielleria e era difficile trovarne».
SG: «Abbiamo ricreato la stessa situazione di un tempo, dove il garzone apprendeva dal suo principale. Si impara a cucire, a stirare, ad attaccare bottoni per uno o due anni e il 99% dei ragazzi rimane da noi».
Come sono i giovani?
DD: «Trovo assurdo che escano dalle scuole di moda e non sappiano disegnare. Sono tutto immagini, creazione di moodboard e concept, ma gli mancano le basi».
Parlate sempre di abiti e poco di accessori...
SG: «Fra mille anni vorremmo essere ricordati per aver cambiato il costume, non per una borsa».
DD: «Attorno agli accessori si è creata una bolla fatta di sensazionalismo e di influencer. La moda è stata umiliata dal finto sapere e dalla finanza esasperata. Noi crediamo più nell’abito che nel business. Un vestito ben tagliato è terapeutico».
Cosa vorreste che pensasse chi indossa per la prima volta Dolce&Gabbana?
SG: «Certo che quei due lì sanno farli i vestiti».
Mai avuto proposte di acquisto?
SG: «Ovvio. E abbiamo portato avanti tutte le trattative. Volevamo capire come era valutato economicamente ed eticamente il nostro lavoro. Ma non abbiamo intenzione di vendere. Ci siamo costruiti da soli, siamo due cani sciolti, non abbiamo voglia di perdere la libertà».
Che qualche volta, tra polemiche varie e la débâcle in Cina, vi è costata cara...
DD: «Se vivi, ogni giorno è qualcosa di nuovo. E puoi incappare in peripezie e problemi. Con qualche anno in più vediamo le cose in modo diverso e per noi l’errore non esiste. C’è l’esperienza. Capisci che puoi aver peccato di presunzione o di ignoranza e ti resetti. Non ho Instagram, ma mi piacerebbe invitare i cosiddetti hater qui, a conoscerci e vedere il nostro lavoro. Spesso chi giudica non sa».
Avete cominciato con i vostri pochi risparmi...
SG: «E lavorando in un monolocale su un tavolo zoppicante. Se uno cancellava si muoveva tutto e l’altro doveva fermarsi».
Ora che avete altri budget in cosa spendete?
DD: «In arte. Ma non sono un collezionista. Compro ciò che mi emoziona, senza preconcetti».
SG: «Ah, io sono uno spendaccione! Amo passare il mio tempo libero al mare, amo i miei cani e gatti».
Siete soci fondatori del Teatro alla Scala e avete restaurato palazzi storici e importanti film italiani. 
Fate anche altro nel privato?
DD: «Un giorno un monaco che si occupa di ragazzi che vivono in ambienti difficili, a fronte di una mia offerta mi disse che quelle persone non hanno bisogno di soldi, ma di amore e bellezza. Nei nostri giri per il mondo abbiamo conosciuto suore che sarebbero di clausura, ma sono invece sempre a contatto con bambini che vengono da famiglie povere. Noi li aiutiamo, ma non solo col denaro. Facciamo sì che abbiano una festa di Natale...». E qui Domenico Dolce prende il suo smartphone e mostra, come un padre orgoglioso, il video della recita natalizia dei suoi pargoli.
Preti, suore. Sulle vostre passerelle è sempre presente la religione, ma anche lo spettacolo e la sensualità. Anche nella vita?
SG: «Siamo cattolici. Io non sono praticante, anche se Domenico ogni tanto mi porta in pellegrinaggio. Lui è molto legato alla Madonna. A me piacciono le immagini sacre e dei santi. In questo sono un classico abitante di questo Paese: nell’italianità c’è sacro e profano. Si può andare in chiesa con l’abito di pizzo».
DD: «Senza l’uno non esisterebbe l’altro, no? E si compenetrano. Una volta, in un santuario, un monaco mi riconobbe e iniziò a dire quanto amava la nostra moda e che noi sì che sapevano vestire le donne».