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 2020  febbraio 13 Giovedì calendario

Intervista a Kim Rossi Stuart



Tra i quattro amici che Gabriele Muccino racconta dagli Ottanta a oggi nel film Gli anni più belli (800 copie oggi in sala) Kim Rossi Stuart è il più coerente e commovente. Un ragazzino che ama gli uccelli, s’innamora una volta e per sempre, da adulto diventa un docente che insegna a non vivere per compiacere gli altri, si prende cura della madre malata, sa perdonare.

Il suo personaggio, come l’infermiere di Nino Manfredi in "C’eravamo tanto amati", incarna uno zoccolo duro di begli italiani solo apparentemente perdenti.
«Non le nascondo che, per quanto Gabriele giustamente tenga a sottolineare la libertà di approccio, io ho voluto rivedere il film di Scola. Il candore e la forza in qualche misura nascosta di uno pseudoperdente come Manfredi mi ha commosso e catturato. Mi ha dato il viatico emotivo e intellettuale per affrontare questo personaggio. Il timone si è settato su quell’immagine là».
Si tratta di un candore consapevole.
«Sì. È un uomo che fa una scelta di campo precisa, quella di non piangersi addosso e non misurarsi con il riconoscimento degli altri.
Inseguire il consenso e non sentirsi mai giustamente riconosciuti porta a un vicolo cieco. La soluzione è accettare ciò che viene dalla vita, anche le cose sgradevoli e le "irriconoscenze" altrui, facendone spunto di crescita per arrivare alle cose vere».
Lei ha citato "Joker" come emblema del vittimismo.
«Il film è bello e seducente, ma per me da vietare ai minori di cinquant’anni per il potenziale di empatia verso il vittimismo. Mi pare paradossale che oggi si punti su questo eroe qui, più attraente di Batman. Molti film degli ultimi tempi mi pare godano nel raccontare un panorama senza luce. Invece dobbiamo sforzarci di trovarla, questa luminosità. Sennò, come i depressi, ci si accartoccia sulla disperazione perdendo di vista la possibilità di distinguere il bene dal male».
C’è qualcosa di lei anche negli altri personaggi del film?
«L’autocritica e la ricerca del difetto è la mia ossessione. Nel personaggio di Favino riconosco l’ambizione, una voglia di affermarsi che conosco. Non mi appartiene quel vivere rotolando in libertà di quello di Santamaria, né ho mai avuto l’indecisione sentimentale e sessuale profonda di quello di Micaela Ramazzotti».
Il set con Muccino?
«Fin dalle prove ho visto che Gabriele ha un approccio alla recitazione che consiste nel mostrare all’attore cosa vuole, recitandolo lui. Ho dovuto farci i conti e non è stato facile. Ma un attore deve adeguarsi e plasmarsi in base alla cifra del regista. Sono contento del risultato».
I suoi anni migliori, finora?
«Non sono nostalgico, mi è capitato nella vita di pensare "com’ero soddisfatto in quel periodo, invece mi mancavano le cose che ho oggi, che sto molto meglio"».
Al sé stesso quindicenne cosa direbbe?
«Take it easy. Ero raggomitolato su me stesso, impaurito. Vorrei prendere quel ragazzo per mano e aiutarlo a lasciarsi andare, aprirsi, amare».
Il decennio che le manca meno?
«Gli Ottanta. Ne ho un ricordo cupo. Ero un ragazzino che si affacciava nel mondo del lavoro, ricordo la rabbia e l’impotenza di fronte alla regola della bustarella, della raccomandazione».
Da regista è andato avanti senza pelle, "Tommaso" fu accolto in modo controverso alla Mostra di Venezia. Ora prepara un nuovo film.
«Sto ritoccando la sceneggiatura, girerò a giugno. Porto sullo schermo uno dei cinque racconti del mio libro, Le guarigioni. Sono sereno, in pace con il mio lavoro, malgrado sia complicato portare avanti qualcosa di sensato. Siamo sommersi da prodotti, pacchetti...
Lei ha citato Tommaso che nel suo midollo ha la voglia di non compiacere e di mettere a nudo un personaggio e forse anche l’autore, in un gesto intenzionale e preciso. La mia strada resta ancora questa».