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 2020  febbraio 13 Giovedì calendario

Camilla Salvago Raggi si racconta

CAMPALE (ALESSANDRIA) Nascosta fra le colline dell’Ovadese, a Campale, Alto Monferrato, la villa metà Ottocento è imponente e austera, col suo tetto a chalet, mosso da angoli e sporgenze, coi suoi abbaini e i comignoli, e il festone di legno che corre tutto in giro. Lì vive, undici mesi all’anno, Camilla Salvago Raggi, anzi, la marchesa Camilla, vice-decana delle nostre scrittrici, 96 anni il primo marzo prossimo (il primato va a Franca Valeri, 99 anni). L’agosto lo passa, ancor più defilata rispetto al mondo, nell’entroterra ligure, a Badia, l’abbazia fondata dai cistercensi nel 1121, donata nel XVII secolo da papa Innocenzo X in diritto di godimento perpetuo al cardinale Raggi, antenato di Camilla. «Un tempo», racconta Camilla, «con accanto un paese, centro agricolo. Oggi ci vive solo una coppia, e io, d’estate, nell’abbazia».
Ma è a Campale che andiamo a trovarla, per festeggiare il suo compleanno e l’uscita del suo ultimo libro, La quinta età, libro, dichiara sorridendo Camilla, «di libri, memorie, passioni». Non si immagini una vecchina: Camilla è magra e scattante, spiritosa, guida con disinvoltura l’automobile, legge moltissimo e soprattutto scrive, scrive ancora. Ha al suo attivo 30 eccellenti libri di narrativa, in prevalenza di memoria familiare, ma non tutti (il romanzo L’ora blu, storia di una madre e di una figlia gelose l’una dell’altra, innamorate di un enigmatico ufficiale nazista nella Genova occupata dai tedeschi durante l’ultima guerra mondiale, è un capolavoro ignorato dalla critica che conta).
Camilla ha antenati illustri, soprattutto il nonno, Giuseppe Salvago Raggi, diplomatico e ambasciatore a Pechino, con appresso la giovane moglie Camilla e il figlioletto Paris (futuro padre della scrittrice) durante la rivolta dei boxer. Cinquantacinque giorni drammatici, narrati dalla nonna Camilla in un diario che la nipote ha trovato pochi anni fa tra le carte di famiglia e raccolto in un appassionante piccolo libro, La nonna era bellissima (Il Canneto, 2015). La vocazione della scrittrice è stata precoce: «Ho iniziato a scrivere da bambina», spiega, «e scrivevo in inglese, romanzi fantasy e poesie. Leggevo in prevalenza libri inglesi, Schoolgirl Stories; poi sono passata a Dickens, alle Brontë e a Jane Austen. Nel 1941 cominciai a scrivere in italiano: Le cronache di Campegna, cinque grossi quaderni, fino al 1944». Scuote la testa e prosegue: «Sì, ho avuto una vocazione precoce, poi a lungo non ho scritto più niente. Ho ripreso verso la fine degli anni Cinquanta. Il mio primo libro, La notte dei mascheri, sono racconti usciti nel 1960. Avevo avuto una piccola corrispondenza con Anna Banti, che mi pubblicò, su Paragone, La padrona giovane, che confluì poi nel volume. Mi sono sentita fortunata e mi sento tale tuttora, anche se non sono nessuno». Lo stile non è acqua: altro che nessuno, Camilla ha una scrittura lieve e penetrante, venata di ironia e autoironia. Chi l’ha influenzata? «Soprattutto Virginia Woolf, per la scrittura veloce, che cattura l’attimo, il pensiero mentre è pensato. Lalla Romano, perché si tratta di testi autobiografici. E Rosetta Loy, quando racconta di un’infanzia così simile alla mia. E Natalia Ginzburg, specialmente per Lessico famigliare. Così ho ricominciato a scrivere risalendo nel tempo e parlando dei miei antenati, della mia famiglia, spessissimo dedicandomi a figure di donne, e cercando di far rivivere la società genovese e monferrina sin dai primi dell’Ottocento».
Libri di memoria: i più significativi, Il noce di Cavour, L’ultimo sole sul prato, Dopo di me, Prima del fuoco : personaggi e case come anime dei luoghi al centro della sua narrativa. Ma, e questo la distingue dalla Ginzburg e dalla Romano, si tratta di figure, come il nonno, la madre, le due nonne, le prozie, reali ma insieme trasfigurate, diventate simboli di un mondo che si è disfatto; figure universali e non convenzionali della vita e della morte, della gioia e del soffrire, e del malessere di vivere. Non è così, Camilla? «Sì, che i miei personaggi possano trasmettere un senso di universalità mi parrebbe un bel traguardo. Esulare dal personalismo… Be’ i miei morti sono per me presenze che abitano la casa, e che mi parlano attraverso la casa e le cose. Non sono una da cimiteri. È questo dialogo muto che mi spinge a scriverne. Trasfigurazione involontaria, direi». Ma veniamo all’ultimo libro, sotto forma di diario. «Oltre ai ricordi, a partire da quello della mia amatissima gatta, ci sono ritratti di personaggi della cultura che ho conosciuto. Cristina Campo, coltissima, passionale ma fragile. E il suo compagno Elémire Zolla, con cui ebbe un rapporto tempestoso. E Feltrinelli: lui si temeva perseguitato e diceva che, nel caso, sarebbe venuto a cercare asilo da noi. Ma anche la mia amica del cuore, la scrittrice Beatrice Solinas Donghi. Elena Croce: con lei mi sentivo inadeguata. E il mio amato marito, lo scrittore Marcello Venturi. Me lo fece conoscere Raffaele Crovi, magnifico talent scout e inventore di case editrici, che gli parlò dei miei racconti. Lui venne a trovarmi e fu amore a prima vista. Dopo un anno eravamo sposi. È morto nel 2008. Ora sono vecchia e sola. Ma sono contenta della vecchiaia: invecchiare è brutto, essere vecchi è diverso».