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 2020  febbraio 13 Giovedì calendario

La galassia jihadista nel Sahel

Un beduino elogiato dall’ex califfo Al-Baghdadi, un tuareg che ha costruito la più temibile alleanza transnazionale, un algerino imprendibile. È questo il trio che ha plasmato la jihad nel Sahel, ormai il fronte più sanguinoso nella lotta al terrorismo globale. La galassia di gruppi che operano in questa fascia semidesertica, a cavallo fra il mondo arabo e quello africano, ruota attorno alle due multinazionali Isis e Al-Qaeda, ma ha saputo cooptare gruppi ed etnie locali. Tutto è cominciato con la caduta di Gheddafi in Libia, nell’ottobre del 2012, che ha aperto gli arsenali del raiss ai qaedisti. A dicembre dello stesso anno una colonna motorizzata ha spazzato via il fatiscente esercito maliano. È stata fermata sulla strada per Bamako dall’intervento dei francesi, che all’inizio del 2013 hanno ripreso le città di Gao, Kidal e Timbuctù.
Ma la guerra era appena all’inizio. I jihadisti sono passati in modalità «insorgenza» e con una miriade di attacchi hanno dissanguato gli eserciti di Mali, Burkina Faso, Niger, il contingente Onu e quello francese. L’anno scorso hanno fatto 4 mila vittime, compresi centinaia di militari. Il 25 novembre 13 francesi sono morti in un’operazione in Mali, il 12 dicembre 72 nigerini sono stati massacrati in una base remota. Il 13 gennaio Emmanuel Macron ha convocato in Francia i capi di Stato del G5, che comprende anche Mauritania e Ciad, per chiedere un impegno più coordinato. Macron ha poi ordinato l’invio di 650 uomini a rinforzo dei 4500 già presenti. Le forze armate locali contano su circa 30 mila uomini, ma addestramento e disciplina lasciano a desiderare. Questo spiega perché poche migliaia di jihadisti, 4 mila al massimo, mettono sotto scatto l’intero dispositivo, tanto che Parigi ha chiesto aiuto all’Europa.
La formazione più temibile è il Jamaa al-Nusra al-Islam u al-Muslim, Gruppo per il sostegno all’islam e ai musulmani, conosciuto con la sigla Jnim. È nato il 2 marzo del 2017 dall’alleanza fra quattro gruppi. L’Al-Qaeda nel Maghreb islamico guidata dal tuareg Iyad Ag-Ghaly; Al-Mourabitoun, cioè quelli che si firmano con il sangue (conosciuti con la sigla Mujao), agli ordini dell’algerino Mokhtar Belmokhtar; il Fronte di liberazione Macina, radicato nel centro del Mali; e la formazione Ansarul Islam, con base nel Burkina Faso. Tutti i leader hanno giurato fedeltà al capo supremo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri. Il soggetto più importante è Ag-Ghaly, fondatore del movimento per la liberazione dell’Azawad, che unisce jihadismo e rivendicazioni nazionaliste tuareg. Fornisce un retroterra sconfinato nel Nord del Mali, a maggioranza tuareg e attraversato da spinte secessioniste. L’altra figura carismatica è Belmokhtar, detto il «Guercio», qaedista di lungo corso, dato per ucciso per quattro volte ma a quanto appare ancora vivo.
L’Ansarul Islam ha invece spalancato le porte del Burkina Faso, dove i massacri hanno assunto anche una connotazione etnica, per le rivalità fra le etnie Dogon, Peul e Fulani, quest’ultimi pastori musulmani più propensi a sostenere i jihadisti. La stessa tecnica è usata dallo Stato islamico nel Grande Sahara, guidato da Adnan Abu Walid al-Sahrawi, che si è guadagnato l’elogio nell’ultimo discorso del defunto califfo Al-Baghdadi. Secondo il Combating Terrorism Center dispone di soli 450 combattenti, ma ha legami con i Boko Haram, anch’essi fedeli all’Isis e sfrutta le rivalità etniche. Il mix di terrorismo e violenze interetniche è così grave che il presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keïta ha deciso di tentare la via dei negoziati, anche nel tentativo di dividere i nemici. I suoi emissari hanno incontrato nei giorni scorsi il capo del gruppo Macina, Amadou Koufa. Un gesto che è piaciuto poco ai francesi, alla ricerca di una vittoria militare decisiva prima di trattare.