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 2020  febbraio 13 Giovedì calendario

Benjamin, a 80 anni dal suicidio

Il 26 (ma secondo alcuni 27) settembre del 1940, nella stanza 4 dell’alberghetto Fonda Francia di Port Bou, sulla frontiera tra Francia e Spagna, muore uno dei più luminosi geni del Novecento. Walter Benjamin ha 48 anni e la sera prima alle 22 ha ingoiato diverse pasticche di morfina. Stava tentando di raggiungere insieme ad altri ebrei e fuggitivi un porto della Spagna per scappare in America. Sente i nazisti alle calcagna (è già stato tre mesi nel campo di prigionia di Nevers); ma, da studioso di Kafka, sa che i nazisti non sono che una delle incarnazioni che può assumere il male. Infatti sono i doganieri spagnoli a fermare il gruppo per un decreto entrato in vigore proprio quel giorno: l’indomani verranno scortati alla frontiera francese. Dirà il suo amico più caro, lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem: “Benjamin non fu abbastanza saldo per reggere di fronte agli avvenimenti del 1940”.
Adelphi ha appena pubblicato il volume Walter Benjamin-Gershom Scholem. Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, a cura di Saverio Campanini, che raccoglie le 128 lettere intercorse tra Benjamin e Scholem prima di quella notte, molte sequestrate dalla Gestapo e disperse per anni (vedi G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi) finché Scholem non le ha recuperate dalla Repubblica Democratica Tedesca nel 1977. Il carteggio ha davvero qualcosa della stanza per lo sviluppo fotografico: asciugate dagli anni, le lettere lasciano emergere la terribile disperazione di Benjamin e la imperdonabile dissipazione del suo ingegno ad opera delle “iene intellettuali” tedesche mentre l’Europa viene divorata dai demoni.
Scholem è professore a Gerusalemme; Benjamin è esule tra Parigi, Ibiza, Sanremo. Vive una vita di stenti, scrive articoli e traduce Proust; non ha ottenuto l’abilitazione all’insegnamento a Francoforte (la sua tesi, Il dramma barocco tedesco, non è stata giudicata all’altezza) e quando è a Parigi è quasi sempre chiuso nel “cerchio magico” della Bibliothèque nationale. Con Scholem parla di problemi di salute, di suo figlio Stefan, finito in un giro di giocatori d’azzardo, di donne che hanno “aperto strade da ingegneri” dentro di lui, di Max Brod, amico e biografo di Kafka che Benjamin detesta (“A Brod manca troppo spesso il ritegno. Passa la misura tanto nel modo in cui esalta Kafka quanto nella confidenza con cui lo tratta… un’amicizia che, tra gli enigmi della vita di Kafka, non è certo tra i più piccoli”) e di soldi. Vive con 500 franchi al mese, provvedutigli da Theodor W. Adorno, che lo ha voluto come collaboratore dell’Istituto di Sociologia di Francoforte. “Per me spesso riuscire a trovare il denaro necessario (ad affrancare lettere, ndr) è difficile come andare io stesso in capo al mondo”, scrive. “Sono preso dal problema dei prossimi mesi, a cui non so neanche come riuscirò a sopravvivere, in Germania o altrove”.
Non riesce a trovare un editore disposto a pubblicare Infanzia berlinese, capolavoro di scrittura in filigrana tra l’autobiografia e l’etnografia, rifiutato sia dagli editori antisemiti che dagli editori sionisti, che non lo ritenevano abbastanza “ebraico”. Da marxista messianico, crede che l’arte e la fotografia libereranno le masse; che la metropoli è il luogo dell’incanto; che le merci esercitano un sex-appeal dolcissimo e letale.
Nel 1933, in brucianti notti estive tra Marsiglia e Ibiza, fa l’esperienza più strana della sua vita: quella del crock (germanizzazione del francese croc, che significa “gancio”). Mentre i compagni – intellettuali e rifugiati politici in fuga dalla Germania nazista – redigono da lucidi i verbali delle sedute, Benjamin assume dosi controllate di hascisch e oppio, provando nel dormiveglia la sensazione calma, pacificata ed ebbra “che la vita fosse stata chiusa in una scatola di conserva”. “L’hascisch”, scrive, “ha il potere di convincere la natura a concederci, meno egoisticamente, quello spreco della nostra esistenza che contrassegna l’amore”.
Prima di morire quella notte di 80 anni fa, scrive a Scholem la sua professione di fede e di identificazione in Kafka: “Per rendere giustizia alla figura di Kafka nella sua purezza e nella sua singolare bellezza non si deve mai dimenticare una cosa: è quella di un fallito. Le circostanze di questo fallimento sono molteplici. Si vorrebbe dire: una volta che fu sicuro del suo fallimento finale, tutto ciò che intraprese nel frattempo gli riuscì come in sogno”. Il giorno dopo il suo suicidio, i suoi compagni riusciranno a passare la frontiera, aiutati dai doganieri che chiuderanno un occhio.
C’è una bellezza – una clemenza – della burocrazia: nel certificato di sepoltura a Port Bou, in corrispondenza del loculo 563 a picco sul mare (“dove i fiori scottano”, scrisse Paul Klee), si leggeva: “D. Benjamin Walter, de 48 años, natural de Berlín, transeunte”.