Il Messaggero, 13 febbraio 2020
Biografia di Ernesto Teodoro Moneta
È l’ottobre del 1911 e l’Italia dichiara guerra all’impero ottomano. Le corazzate Garibaldi, Filiberto, Carlo Alberto cannoneggiano i forti di Tripoli e Tobruk preparando lo sbarco della fanteria. La penisola è in festa. Gea della Garisenda, avvolta nel tricolore, infiamma i teatri con la sua squillante voce di soprano: «Tripoli bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon; sventoli il tricolore sulle tue torri al rombo del cannon».
Mussolini e Nenni, contrari all’avventura, trascorrono un paio di settimane in galera. Uno sciopero generale riesce a metà. La chiesa si mantiene neutrale e Giolitti ha gioco facile quando dichiara che la guerra è stata una fatalità storica. Anche Pascoli scende in campo con un’orazione guerresca. Ma sono le parole di Ernesto Teodoro Moneta a suscitare emozione: «L’Italia, impossessandosi di quel lembo di terra africana che prospetta la Sicilia, toglie per sempre il pericolo, non del tutto immaginario, che in un avvenire prossimo o lontano, un’altra potenza potesse impadronirsene. E nel momento che la Francia ha assicurato il suo dominio sulle coste settentrionali dell’Africa, l’Italia prende la sua parte tra l’Egitto, dove domina l’Inghilterra, e la Tunisia dominata dalla Francia, cooperando a risolvere in modo definitivo la questione del Mediterraneo».
Ma chi è questo Moneta che solletica la pancia del Paese in delirio? Aristocratico milanese, giornalista, si batte sulle barricate di Milano, frequenta la scuola militare di Ivrea, è ufficiale di stato maggiore nella spedizione garibaldina dei Mille. Insomma uno che sa maneggiare carabina e pistola, conosce strategia e tattica. Ma è innamorato della pace.
DISTINGUO
Ci sono guerre e guerre, spiega ai tantissimi lettori del Secolo che ha comprato da Edoardo Sonzogno: «Convinti che la pace è un bisogno dei popoli, combatteremo strenuamente coloro che seminano odio; ma convinti nello stesso tempo che la difesa, in ogni caso di aggressione è necessità e dovere supremo».
E non si risparmia sostenendo che gli eserciti permanenti sono troppo costosi in pace. Meglio un ordinamento che faccia dell’educazione militare e civile un’unica disciplina. Di più: occorre rendere obbligatorio per la gioventù il tiro a segno.
I suoi libri, gli editoriali che infiammano, la costituzione della Società per la pace e la giustizia internazionale sono stimoli per dibattiti che superano i confini. Moneta è instancabile. Per l’esposizione internazionale di Milano del 1906 realizza un padiglione per la Pace.
LA SCELTA
Tanta attività e il suo continuo martellare sull’indispensabile combinazione tra pacifismo e patriottismo non lasciano indifferenti i giurati del Nobel per la pace. Tocca al parlamento norvegese scegliere. Ernesto Teodoro Moneta viene premiato a Oslo il 10 dicembre del 1907. Nel testamento Alfred Nobel aveva deciso che l’onorificenza per la pace dev’essere di competenza norvegese perché alla sua morte, e fino al 1905, la Norvegia farà parte del regno di Svezia. Moneta, ormai anziano ma sempre lucido, non perderà l’occasione per far sentire cosa pensa dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915: «La pace da noi sempre desiderata è la pace dei liberi e dei forti. Se per averla è indispensabile la guerra, la responsabilità è di coloro che hanno gettato l’Europa in questo baratro di rovina e di stragi».
Non mancano le critiche. E i movimenti pacifisti europei chiedono che il Nobel venga ritirato a Moneta. Non se ne risente. È quasi cieco e morirà nel 1918 a 84 anni.
Non può lasciare indifferenti rileggere oggi le sue parole, sapendo cosa ribolle sull’altra sponda. E quale occasione di festa e rimpianto per i nipotini di Erdogan sono state le immagini del cacciatorpediniere turco ancorato nel porto di Tripoli.
Quando la guerriglia spaventava l’Occidente, non abbiamo avuto l’ardimento di inviare una nave da guerra al largo della Libia. Abbiamo interessi consistenti in zona, basta pensare al ruolo dell’Eni e al lavoro fatto dagli eredi di Mattei a Marsa El Brega. Forse non ce l’hanno consentito i suggerimenti americani, ammesso che una mossa del genere sia venuta in mente a qualcuno del governo Conte, o che sia stata pensata o forse sognata dagli Stati Maggiori.
IL CANTO
Il ministro degli Esteri ha balbettato che forse avremmo potuto ottenere la guida di una missione militare Onu di interposizione tra le due forze in guerriglia.
Rassegniamoci: la Libia è perduta per sempre. Ci hanno sbattuto fuori gli inglesi nel 1944 e per quanti sforzi noi si faccia per mantenere una presenza dignitosa, ci sono sempre le unghiate francesi a rammentarci che siamo un Paese sconfitto. Le guerre perdute sono perdute per sempre. Ci resta la piccola consolazione di fornire motovedette al governo di Serraj e un pacchetto di assistenza sanitaria. E ogni tanto di aprire i salotti di palazzo Chigi alle visite dei contendenti. Tripoli bel suol d’amore cantavano i nostri nonni e bisnonni, illuminandosi di speranza alle rime ingenue di Giovanni Corvetto. La musica è di Colombino Arona. Se non fosse irriverente per la memoria di lui verrebbe da dire che un canto di guerra avrebbe meritato un nome più forzuto.