Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 12 Mercoledì calendario

A vent’anni dalla morte di Charles M. Schulz

E venne il giorno in cui Snoopy, arrampicato come al solito sul tetto della sua cuccia, si mise a battere sulla macchina da scrivere non per cominciare un romanzo, ma per finire una lettera. Il 13 febbraio di vent’anni fa non era «una notte buia e tempestosa», incipit di tutte le novelle immaginate dal cane più incredibile mai visto nella storia dei fumetti: il 13 febbraio 2000 era una mattina fredda e triste, l’ultima in cui i quotidiani americani pubblicarono una nuova striscia dei Peanuts. «Cari amici», scriveva Snoopy per conto del suo creatore, «ho avuto la fortuna di disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi cinquant’anni. Purtroppo non sono più in grado di mantenere il ritmo di lavoro richiesto da una strip quotidiana...». 
Un messaggio triste, che gli appassionati lessero con le lacrime agli occhi, perché Snoopy, in quella striscia preparata come al solito con settimane di anticipo, non poteva sapere una cosa: il giorno prima, il 12 febbraio del 2000, Charles Monroe Schulz era morto. Una coincidenza perfetta, per un autore che aveva fatto della precisione la sua cifra stilistica e che era riuscito nell’impresa non semplice di raccontare se stesso attraverso un fumetto con i bambini protagonisti, dalla location indefinita, dove gli adulti ci sono ma non si vedono mai.
I punti di contatto tra il fumetto e la vita dell’autore sono così numerosi da sfiorare i confini della leggenda metropolitana. Saggisti e biografi ne raccontano a decine: il padre di Schulz era un barbiere, come l’immanente e invisibile genitore di Charlie Brown. Da bambino, il piccolo Charles ricevette in regalo un cane bianco che chiamò Spike, lo stesso nome con cui da grande battezzò il fratello di Snoopy, singolare guest star della striscia. Charlie Brown era il nome di un suo compagno di classe al liceo di Saint Paul, Minnesota. Schroeder, il bambino musicista capace di interpretare Beethoven su una pianola senza i tasti neri, rappresentava la sua passione per la musica classica, amata senza studi specifici ma rispettata al punto da copiare gli spartiti nota per nota, per far «suonare» al piccolo fenomeno una vera sinfonia. «In realtà», rivelò Schulz in un’intervista, «la mia passione è Brahms, ma la parola Beethoven mi sembrava più buffa, da affiancare al piano di un bimbo».
La «ragazzina dai capelli rossi», oggetto dell’amore inconfessato e impossibile del suo protagonista, aveva addirittura un nome: Donna Wold, impiegata contabile della scuola d’arte dove Schulz insegnò subito dopo la guerra. «Era timidissimo», rivelò lei quarant’anni più tardi, «una volta al cinema ci siamo dati un bacio. Gli chiesi se voleva fuggire con me, come si diceva a quei tempi. Lui rispose che sua madre avrebbe sofferto troppo». Donna finì per sposare un pompiere di Minneapolis, ma conservò per sempre le strisce in cui Charlie Brown si perdeva in quell’amore mai vissuto. 
Le strisce dei Peanuts, lette tra le righe, rivelano anche i tratti più oscuri della biografia del loro autore, uomo moderato e fervente cattolico, ma non immune dal peccato: all’inizio degli anni Settanta, una giovane si presentò nel suo studio fingendosi una fotografa in cerca di lavoro. Era Tracey Claudius, una fan che voleva conoscere di persona quello che, non a torto, considerava uno dei più grandi artisti d’America.
Tracey e Charles si innamorarono. Lui, in particolare, perse la testa: per due volte le chiese di sposarlo e per due volte lei rifiutò. «Non potevo rovinare una leggenda», spiegò dopo la morte di lui. La storia finì quando la moglie di Schulz si insospettì per un paio di bollette insolitamente alte: Tracey viveva a San Francisco e Charles aveva esagerato con le chiamate a distanza, in un tempo in cui le telefonate erano ancora costosissime.
Qualche settimana più tardi, sulle strisce pubblicate in mezzo mondo, Snoopy si innamorerà di una «bracchetta dalle zampe morbidissime» conosciuta durante un viaggio in una fattoria lontana. Charlie Brown, per una volta, non asseconda la follia del suo cane dalle mille vite. Si oppone a quell’amore improvviso, gli impedisce di tornare alla fattoria, lo scopre al telefono e gli urla di «smetterla con quelle interurbane». 
È la vita che si intreccia alla fantasia, come nelle opere d’arte più grandi. E forse è proprio questo, al di là del genio di Schulz, il segreto del successo senza tempo dei Peanuts, ancora vivissimo nonostante la loro saga sia ormai congelata da vent’anni. Charlie Brown, Linus, Lucy e Snoopy sono adorabilmente matti. Ma tutti, persino il cane, sono esattamente uguali a noi.