Il Messaggero, 11 febbraio 2020
L’urlo di Munch si sta scolorendo
Allarme, allarme: alcuni grandi capolavori mondiali della pittura del Novecento stanno perdendo i propri colori. Diventano evanescenti; o, magari, i loro rossi violacei si trasformano in blu e in azzurri; virano la loro tonalità. Succede al norvegese Edward Munch, per alcuni il «pittore dell’angoscia» (1863 – 1944), e al suo acuto più osannato, ovvero L’urlo; succede all’artista più feticcio di tutti, l’olandese Vincent Willem Van Gogh (1853-90), e alla sua famosissima Camera da letto del pittore. «Può sembrare assurdo, ma conservare e perfino restaurare i colori più antichi, magari di un Giotto, è infinitamente più semplice che misurarsi con le opere dei tempi successivi, per non dire quelle contemporanee», spiega Caterina Bon Valsassina, che a lungo ha diretto l’Istituto per il restauro voluto da Giulio Carlo Argan e da Cesare Brandi, una delle eccellenze assolute italiane.
Il grido di preoccupazione (cioè l’urlo per L’urlo) l’ha lanciato, con grande enfasi, il New York Times. Racconta che il capolavoro di Much è sotto investigazione dal 2012: raggi X e microscopi elettronici per capire come mai alcune sue parti, dal colore giallo-aranciato che avevano, sono ormai diventate quasi di un bianco avorio. Ora, i tecnici cercano di capire anche come il pittore lavorasse, e di prevenire dei cambiamenti ulteriori; anche di leggere e ricostruire come, in antico, il quadro poteva essere. L’urlo non è un dipinto qualsiasi. L’artista ne realizza quattro versioni; la prima nel 1893, l’ultima nel 1910. Ed è questa che, al museo di Oslo dedicato all’artista, è ora sotto osservazione. La penultima edizione è andata all’asta nel 2012, per la cifra record di 120 milioni di dollari. E questa è stata invece clamorosamente rubata due volte, ma sempre ritrovata. La prima, nel 1994: la fecero recuperare due agenti che si fingevano interessati all’acquisto, dopo che il furto era stato rivendicato da degli antiabortisti, che volevano, in cambio, la trasmissione di un documentario alla tv. Il secondo furto, opera di due uomini armati, è di dieci anni dopo, ed è durato circa 24 mesi.
Tornato, il capolavoro dell’Espressionismo è stato subito riagganciato al suo posto. Ma ci si è accorti che qualcosa non andava; e non soltanto per l’umidità che evidentemente l’aveva colpito durante la cattività. Tanti museo stanno esaminando centinaia di opere, per scoprirne i segreti; ad esempio, la National Gallery di Washington. Ma in questo caso, una scienziata americana, Jennifer Mass che conduce gli esami, si è accorta che, al microscopio, la superficie dell’Urlo appare come una piantagione di stalagmiti: «Dei nanocristalli crescono sul quadro, ed evidenziano delle degradazioni del colore nel cielo, nell’acqua e vicino alla bocca che urla». Le tinte si attenuano, e mutano tonalità. Così, sono stati analizzati i colori usati dall’artista: circa 1.400 suoi tubetti sono conservati nel museo. E s’è scoperto che il giallo cadmio trasmuta in solfato e in carbonato, si ossida. Jennifer Mass dice che un quadro su cinque dipinto con questo colore negli Anni Venti è interessato a fenomeni analoghi.Ma prima di vederli nel dettaglio, parliamo ancora, per un momento, dell’autore dell’Urlo. Personaggio singolare: lo dipinge a trent’anni; racconta di quella sera a Kristiania, quando vide il cielo così come poi ce l’ha regalato; e «io ho veramente sentito quell’urlo». Muore, e dona tutto al Comune di Oslo; mille opere: molte deteriorate, perché le lasciava all’aperto, per quella che lui chiamava «una cura da cavalli». Oltre all’Urlo, si diceva, anche dei Van Gogh soffrono. Lo ha scoperto sempre la Mass. Spiega Bon Valsassina: «Una volta, un pittore cominciava a pestare i colori a tre anni; e se ne leggevano le formule. Nel tempo, i pigmenti si sono fatti meno stabilizzati. E da quando è iniziata l’epoca dei tubetti, è peggio: non tutti sono stati studiati; e alcuni non si producono più. Ricordo i dibattiti nell’Istituto per il restauro appunto su come trattare le opere più recenti: c’è una sezione dedicata proprio al contemporaneo. Un caso ben singolare fu quello della Gravida di Pino Pascali: la gravidanza era simulata con un palloncino. Che però, si sgonfiava. Allora, che fare? C’era ancora il povero Michele Cordaro. Gonfiarlo ogni tanto? Non ci si poteva arrendere alla gravidanza trasformata in una pancia afflosciata. Alla fine, si decise semplicemente che quel palloncino andava sostituito»; anche se non era più quello originale. Ora vediamo se per Munch e Van Gogh gli studiosi sapranno inventarsi qualche valido (speriamo) antidoto.