Corriere della Sera, 11 febbraio 2020
Gli esiliati intolleranti
Alcuni anni fa (nel 2014) l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ha stimato in cinquanta milioni il numero di persone che, in tutto il mondo, sono costrette a vivere la condizione di esule. Oggi, si calcola con una qualche approssimazione, sono alcuni milioni in più. Quasi come l’intera popolazione del nostro Paese. Ci sono profughi che si sistemano nei campi con la speranza di un ritorno, sostiene lo studioso canadese Nicholas Terpstra nel saggio Purezza e fede. Esuli religiosi nell’Europa moderna, pubblicato dal Mulino. Altri invece – prosegue Terpstra – vagano da un Paese all’altro nel tentativo di costruire una nuova esistenza. Alcuni libri hanno affrontato negli ultimi anni il problema delle origini di questo fenomeno: La lunga età della Riforma. Religione, lotte politiche e disciplinamento (1350-1750) di Peter G. Wallace (il Mulino, 2006); Riforma. La divisione della casa comune europea (1490-1700) di Diarmaid MacCulloch (Carocci, 2010); La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648 di Mark Greengrass (Laterza). Tutti puntano l’attenzione sul Seicento.
Quando si può dire sia nata quella che è stata definita la «società persecutoria»? Quando sono iniziati questi spostamenti? Possono essere questi esodi considerati, nelle loro dimensioni, come semplice premessa a quella che sarebbe divenuta una caratteristica del Novecento? No. Gli Stati europei, ricostruisce adesso Terpstra, iniziarono a usare consapevolmente l’esilio e l’espulsione come strumenti di azione politica circa cinque-seicento anni fa, nel periodo identificato come tardo Medioevo o Rinascimento, tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento, allorché la fuga per motivi religiosi divenne fenomeno di massa.
Le tradizioni medievali che riguardavano la purezza, il contagio e la penitenza, nel XV secolo furono oggetto di «definizioni molto più stringenti», le nuove realtà politiche ed economiche «condizionarono profondamente le diverse correnti culturali e gli eventi storici», al punto da «determinare le riforme istituzionali e religiose del XVI e XVII secolo». Finché le città, i villaggi, gli Stati furono stabilmente impegnati nell’affermare il loro carattere religioso e la loro purezza spirituale. Si va dalla Spagna di fine Quattrocento alla Francia di fine Cinquecento, quando «il potere cominciò a passare nelle mani dei monarchi e dei governi centrali» e l’obiettivo del francese Enrico IV, «un re, una legge, una fede», prese piede in tutto il continente. Si decise pressoché ovunque che ogni società, assumendosi seriamente le proprie responsabilità al cospetto di Dio, avrebbe dovuto «purgarsi per purificare la propria popolazione e così mantenere la propria salvezza». Quelli che rimasero fuori da questo processo non solo vennero considerati alieni, ma anche «impuri e portatori di contagio».
Il «duro linguaggio della purificazione e della purgazione», sostiene Terpstra, uscì dall’alveo della medicina e fu adottato dai movimenti riformisti religiosi. La spinta a purgare e a purificare «diede nuova forma all’Europa e al mondo» in tutto il primo periodo della storia moderna. Il 1492 non fu soltanto l’anno della scoperta dell’America. Le espulsioni degli ebrei dalla Spagna in quello stesso 1492 furono uno degli eventi cruciali che contraddistinsero l’inizio della Riforma, «non meno importante di ciò che Martin Lutero fece con le 95 tesi nel 1517 o della controversia sul divorzio del sovrano inglese Enrico VIII tra il 1520 e il 1530». Agli ebrei spagnoli venne offerta l’opzione tra farsi battezzare come cristiani o lasciare il territorio nel quale avevano vissuto per più di mille anni. Anche i musulmani, presenti nella penisola iberica da sette secoli, ricevettero nel 1502 un ultimatum simile.
Non si trattò né della prima né dell’ultima minaccia, tiene a precisare Terpstra. Per gli ebrei era già accaduto nel 1391, ma fu un caso a sé stante, ancorché di notevoli dimensioni. Per i musulmani succederà di nuovo tra il 1609 e il 1614. L’editto del 1492 di re Ferdinando e della regina Isabella, però, «fu uno dei più ambiziosi per la portata nazionale, per il numero di persone che riguardò e per il significato religioso». Per i suoi promotori fu «un modello di costituenda comunità e un atto di devozione». Fu altresì una «prefigurazione del futuro», in quanto «basò l’appartenenza alla comunità nazionale sulle fondamenta della verità religiosa e della volontà individuale anziché sulla imprevedibilità della nascita». Nel giro di qualche decennio agli anabattisti olandesi, ai calvinisti italiani, ai cattolici inglesi e agli hussiti boemi venne offerta su due piedi un’unica scelta: accettare un altro credo religioso o andarsene.
Dopodiché le espulsioni di massa ebbero un’evoluzione per gradi. Nel corso del XV secolo, ovunque in Europa una crescente ondata di espulsioni costrinse centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case per motivi connessi alla religione. Il discorso non riguardò solo la Spagna, da cui ottantamila israeliti dovettero andarsene nel 1492 nel giro di tre settimane: dieci anni dopo la stessa sorte toccò a duecentomila musulmani. Ventimila ebrei furono espulsi dalle città della Germania e della Francia. Nel decennio tra il 1520 e il 1530 gli anabattisti furono costretti a fuggire dall’Europa centrale e occidentale verso la parte orientale del continente. A partire dal 1540 gli spirituali fuggirono dall’Italia. Dopo il 1550 i protestanti mariani dovettero abbandonare l’Inghilterra, i cattolici furono costretti ad emigrare ai tempi di Elisabetta I. E non finì qui. Quando i calvinisti andarono al potere, tra il 1570 e gli inizi del 1580, diecimila cattolici lasciarono i Paesi Bassi. Poi, quando le truppe spagnole alla fine del decennio riconquistarono le Fiandre, centocinquantamila protestanti abbandonarono la regione. Nel regno di Castiglia, tra il 1570 e il 1580, ottantamila moriscos (i mori musulmani forzati ad abbracciare la religione cristiana) furono cacciati da Granada e Valencia.
La mole delle espulsioni, prosegue Terpstra, aumentò nel corso del secolo successivo come effetto del processo di affermazione dell’identità nazionale e proprio a causa dell’instaurazione di un maggior potere di controllo dei governi: trecentomila musulmani abbandonarono la penisola iberica tra il 1609 e il 1614; centocinquantamila ugonotti lasciarono la Francia dopo il 1685; ventimila protestanti migrarono dal vescovado di Salisburgo tra il 1731 e il 1732 in quella che si considera «l’ultima grande espulsione motivata da ragioni religiose nell’Europa premoderna».
Ma qualcosa di non dissimile accadde anche fuori dai contesti europei. A partire dal 1755, ad esempio, gli inglesi trasferirono forzatamente oltre undicimila coloni cattolici francesi dall’Acadia (le attuali province canadesi di Nuova Scozia, New Brunswick e Prince Edward Island), con la speranza «che questa fosse la soluzione definitiva per sconfiggere un movimento di guerriglia molto determinato che stava resistendo all’assorbimento nell’impero britannico». Fu l’ultima volta che una potenza coloniale europea obbligava con la forza dei coloni a trasferirsi per ragioni religiose o nazionali.
Ma attenzione: non tutti gli esodi furono conseguenza di una dichiarazione formale e non sempre i migranti fuggirono perché si consideravano in pericolo di vita. Nella prima età moderna – nota Terpstra – si ebbero migrazioni «volontarie» di gruppi religiosi i cui effetti si sono fatti sentire anche nei secoli successivi. Alcuni spostamenti furono «orchestrati» dai governi per garantire il controllo politico delle aree contese, come nel caso dell’Inghilterra dove i protestanti furono costretti nell’Irlanda del Nord in quella che è passata alla storia come la «Ulster plantation», ovvero la colonizzazione della parte settentrionale dell’isola. In altri casi, «intere comunità si trasferirono oltremare per poter mettere in pratica le loro convinzioni di purezza religiosa o almeno per sfuggire alle interferenze e alle persecuzioni». Spesso la loro scelta di trasferirsi dall’altra parte dell’Oceano era «sostenuta e favorita dalle medesime autorità europee che li perseguitavano».
I protestanti francesi in una prima fase scelsero «liberamente» di raggiungere il Brasile o la Nuova Francia su pressione dei funzionari governativi parigini che «non riuscivano a persuadere altri francesi a occupare le nuove terre di conquista». Gli ebrei portoghesi si stabilirono a Recife, in Brasile. E, quando furono sradicati dall’Inquisizione, si spostarono nel Suriname. Allo stesso modo molti ebrei spagnoli, formalmente convertitisi al cattolicesimo, migrarono verso il Messico nel XVI secolo. Secondo alcune stime, puntualizza l’autore, furono «più della metà di tutti i coloni provenienti dalla Spagna». Tanto che l’Inquisizione ritenne di seguirli a partire dal 1571.
Tra i primi ad avere piena consapevolezza del loro «esilio religioso», riconoscendosi come «pellegrini» e ispirandosi al modello biblico dell’esodo degli ebrei in fuga dall’Egitto, furono i puritani inglesi, quando partirono dall’Inghilterra diretti in America dal 1620-40 in cerca della «terra promessa». La loro esperienza dell’esilio li portò a considerarsi un popolo eletto in grado di diventare la «luce delle genti». La stessa convinzione, «senza il credo puritano», si diffuse tra gran parte dei cattolici inglesi che più tardi seguirono le loro orme nel Maryland e Rhode Island. La forte percezione di essere «una nazione eccezionale con un destino divino» divenne sin da allora una parte fondamentale dell’identità americana, fatta propria sia dagli ebrei sia dai musulmani, dagli induisti e dai cristiani, sotto forma di «religione civile secolarizzata». Ed ecco che, scrive Terpstra, alla luce di queste dinamiche, «la Riforma emerge come il primo periodo in cui, nella storia europea e mondiale, il rifugiato per motivi religiosi diviene un fenomeno di massa».
È vero, riconosce l’autore, le origini di quella che viene definita «società persecutoria» risalgono a molto più indietro nel tempo. Ma mai prima di allora «così tanta gente di differenti fedi – centinaia di migliaia e forse milioni di persone – fu spostata forzatamente in nome della purezza religiosa». Alcuni, come gli ebrei iberici o gli ugonotti francesi, vennero «espulsi da una nazione che si stava autoconvincendo della propria purezza». Altri, come gli anabattisti apocalittici di Münster o i puritani della baia del Massachusetts, vennero spinti verso una terra promessa dove furono messi nelle condizioni di dar vita a comunità «pure».
L’esilio fu concepito, da molti gruppi di rifugiati, come punto di partenza ed elemento chiave di identificazione: lo abbracciarono fino a «fare a loro stessi ciò che avevano subito dagli altri». Essere esiliati talvolta li spinse ad essere meno tolleranti di come loro stessi, prima della partenza, avevano immaginato che sarebbero stati. Le persecuzioni subite incoraggiarono alcuni anabattisti radicali a isolare le comunità agricole nell’Europa centrale e orientale, dove imposero la loro disciplina «ai membri erranti e dissidenti» messi di fronte alla scelta tra conformarsi o andare in esilio. Lo stato di rifugiati acuì la convinzione dei calvinisti di essere il popolo eletto da Dio che vive «come i figli di Israele degli ultimi giorni, esiliati dalla schiavitù in Egitto». In una serie di terre promesse, da Ginevra a Emden, fino al New England e al Sudafrica, «il dolore dell’esilio divenne per i calvinisti una medaglia al coraggio, un marchio d’elezione nonché una forma di disciplina». Nel mondo conosciuto, i rifugiati rientrati o gli esuli trapiantati divennero i più duri sostenitori dell’intolleranza religiosa e della purificazione. Salvo, nei decenni e secoli successivi, dimenticare questo antefatto che Terpstra ci aiuta adesso a riscoprire.