la Repubblica, 11 febbraio 2020
Perché George Soros non piace alle destre
Excusatio non petita, accusatio manifesta. Volentieri mi autoinfliggo questo insinuante proverbio medievale nel recensire l’ultimo saggio dell’uomo reso impopolare da una straordinaria campagna mondiale di denigrazione allestita dai propagandisti della destra sovranista. Pur non avendolo mai conosciuto, da alcuni anni vengo descritto come zelante portavoce dei suoi perfidi disegni miranti all’arricchimento personale tramite la speculazione e il favoreggiamento dell’immigrazione. Quasi ogni giorno mi sento ripetere che mettersi al suo servizio avrebbe garantito a me, come a tanti altri, una messe di privilegi materiali e professionali.
L’uomo in questione compirà novant’anni l’agosto prossimo. Gli resta poco da vivere. Si chiamava Gyorgy Schwartz quando nacque a Budapest, ma cambiò il suo nome in George Soros al tempo delle persecuzioni antiebraiche in Ungheria. Emigrato prima nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti, è diventato uno dei finanzieri più ricchi del mondo. Nel solco degli insegnamenti del suo maestro Karl Popper, ha devoluto una quota cospicua dei suoi profitti – circa quindici miliardi di dollari – nella creazione delle Open Society Foundations, concepite come agenzie di finanziamento di opere di filantropia sociale e culturale.
Il suo libro Democrazia! Elogio della società aperta, diciamolo subito, non è un granché. Raccoglie disordinatamente analisi di scenario in parte già superate. E questa, se volete, è la scusa non richiesta con cui neanche fingerò di dissimulare la curiosità e l’ammirazione che mi suscita un personaggio tanto controverso. Se vale la pena di leggerlo ugualmente è difatti per l’autoanalisi cui si sottopone, con disarmante sincerità, una figura così enigmatica. La sua volontà di modificare a suon di miliardi il corso della storia, per correggere le storture del capitalismo di cui egli stesso ha usufruito, in qualche modo risulta speculare all’ambizione di altri plutocrati come Trump, e da noi prima ancora Berlusconi, che hanno utilizzato il loro patrimonio a fini di potere politico. La differenza è che Soros rivendica una visione filosofica originale, applicando la quale il denaro potrebbe trasformarsi in carburante della società aperta e quindi in baluardo della democrazia minacciata dalle dittature e dagli Stati mafiosi.
L’età avanzata e il privilegio economico di cui gode da oltre mezzo secolo, lo inducono a formulare diagnosi brutali, senza peli sulla lingua. Denuncia il pericolo che le democrazie soccombano ai disegni autoritari impersonati dalla Russia di Putin e dalla Cina di Xi Jinping, ma anche dalla presidenza Trump. Non solo. All’orizzonte intravede una minaccia perfino più allarmante: «I regimi autoritari potrebbero stringere un’alleanza con i grossi monopoli tecnologici detentori di dati, unendo così i nascenti sistemi di sorveglianza commerciale a una struttura di sorveglianza già sviluppata, esercitata dallo Stato». Il vecchio Soros non ha certo paura di dichiarare guerra anche a Google e Facebook.
Ma a questo punto sorge spontanea la domanda: chi glielo fa fare? La risposta è la parte più interessante del libro. Soros sostiene di essere riuscito ad applicare ai mercati finanziari l’impalcatura di pensiero critico appresa da Karl Popper, contraddicendo le teorie economiche in auge fino a surclassare gli investitori istituzionali: «Imparai a gestire con successo i fondi speculativi, potendomi vantare di essere la voce critica più pagata al mondo».
Qui ci imbattiamo nella molla della vanità che trasforma il finanziere Soros dando una svolta alla sua vita: «Quando mi sono ritrovato ad avere più denaro di quanto ne avessi più bisogno per me stesso o la mia famiglia, ho avuto una specie di crisi di mezza età. Che senso aveva ammazzarmi per fare altri soldi?». Nel 1979 inaugura l’Open Society Fund. Prima devolve soldi a fondo perduto per indebolire il sistema dell’apartheid in Sudafrica, poi finanzia gli oppositori del blocco comunista scommettendo sulla sua fragilità. Ammette perfino di aver utilizzato la cattiva fama ingigantita dai media che nel 1992 lo additarono come «l’uomo che ha gettato sul lastrico la Banca d’Inghilterra» per amplificare l’impatto dei progetti di Open Society.
Come altri miliardari, Soros avrebbe potuto accontentarsi di collezionare opere d’arte, abitazioni favolose, vizi da nababbo. Facendo magari anche un po’ di beneficienza. Ma una simile prospettiva non avrebbe saziato la sua vanità. Nel libro non esita a definirsi “egoista” ed “egocentrico”. Marchiato dalle disavventure giovanili del 1944, quando si trattava di sfuggire alla cattura e alla morte, gli è rimasto «il gusto di correre rischi». I tratti del suo carattere, il suo “ego esagerato”, lo sospingono a vincere l’innata diffidenza per la filantropia e per l’altruismo: «Quando donate del denaro, chi lo riceve vi lusinga e fa di tutto per farvi sentire bene, così le contraddizioni vengono messe a tacere sotto una spessa coltre di ipocrisia».
Decide allora di darsi da fare per risolvere «l’apparente contraddizione tra un filantropo egocentrico e una fondazione altruista». Il fatto di essere ricco, sostiene, accresce il suo senso del dovere. «Dato che la filantropia è una fonte di soddisfazione dell’ego, sento che non mi si deve alcun ringraziamento». Ma col tempo impara ad accettare la gratitudine altrui: «Non vedo più motivi di vergogna nell’avere un ego così grande, perché si è rivelato un vantaggio non solo per me ma anche per molti altri».
Eccoci squadernata sotto gli occhi la figura più detestata dai populisti: il ricco liberal che sposa ideali progressisti anche quando entrano in contraddizione con i suoi interessi materiali (comunque garantiti). Non è un caso se per i populisti Soros diventa una specie di incarnazione del demonio. Sopportano volentieri, all’occorrenza, che dei miliardari si mettano alla testa dei loro movimenti reazionari. Ma considerano intollerabile che finanzino associazioni di segno opposto. E allora s’inventano le più strambe teorie cospirazioniste per sostenere che a muoverli sia nient’altro che l’usura e l’avidità. L’ego di Soros, così, lo porta a compiacersi: «Sono molto fiero dei miei nemici».