la Repubblica, 11 febbraio 2020
I virus e la mascherina di Xi
Non se l’aspettava proprio Xi Jinping che sarebbe toccato anche a lui mettersi la “museruola”, come i contestatori negli anni Cinquanta e Sessanta chiamavano la mascherina sanitaria: già, perché la mascherina bianca era diventata una specie di tenuta d’ordinanza per i fedeli alle direttive del partito che aveva da poco scoperto l’esistenza di esserini invisibili maligni, i microbi, i batteri, i virus. L’aveva scoperto ancor prima di accorgersi che l’aria di Pechino era diventata mefitica, cosicché la mascherina poteva anche servire come misura antismog. Ai tempi si andava in giro con la mascherina di garza per convinzione ideologica: siamo brava gente, mica reazionari, e poi perché ci si era accorti che l’aria puzzava davvero. Ultimamente però, almeno a Pechino, di mascherine antismog se ne vedevano poche perché l’aria era di certo migliorata rispetto all’era mefitica di Mao. E lo dico senza secondi sensi. Era ed è stata per decenni davvero cattiva l’aria di Pechino, la mascherina serviva anche per non farsi riconoscere quando si andava a un convegno amoroso; e cosa c’era allora di più controrivoluzionario dell’amore? E poi, pensateci un po’, un Paese tecnologicamente all’avanguardia come la Cina di Xi che ha introdotto tecniche sofisticatissime per il riconoscimento facciale, come poteva permettere a donne e uomini mascherati di andarsene in giro per le strade? Ma ecco che ancora una volta arrivano i biechi esserini, i cattivissimi virus, a intralciare la via del progresso come già era successo all’epoca della Sars, non si sa se più o meno letali ma di certo più inopportuni perché vengono a contestare le grandi speranze di apertura, di commercio globale, di vie della seta, il fulcro cioè della politica di Xi Jinping, sempre in giacca e cravatta con a fianco una bella moglie che davvero sarebbe un sacrilegio vedere anche lei con la mascherina. Altro che manifestazioni di Hong Kong o elezioni di Taiwan, è il virus il vero pericolo in agguato. Forse per questo Xi, alla faccia del riconoscimento facciale, si è deciso a tornare a metodi che si pensava obsoleti di propaganda. Manca solo il «compagni!», ma la parola si aggira come esortazione muta e vibrante all’azione, alla lotta, alla resistenza. Dice come si diceva allora: «Fate come faccio» e si mette la mascherina, si fa misurare in pubblico la febbre, insomma si adegua. «Ma venisse a Wuhan, piuttosto!» sibila la gente sui social, perché tutti sanno che un’epidemia del genere non poteva che scoppiare in un mercato come quello di Wuhan dove si facevano gli acquisti per l’anno del topo. Per la grande festa del Capodanno lunare i cinesi amano mangiare prelibatezze come i pipistrelli, che non sono tanto buoni ma che portano tanta fortuna. Perché pipistrelli in cinese si dice fu e anche fortuna, felicità, si dice fu. La Cina è enorme e le superstizioni non spariscono dall’oggi al domani: lo sapeva Mao, e oggi deve essersene reso conto anche l’ultra tecnologico Xi, che forse ha voluto mandare altri due messaggi. Uno ai suoi avversari: io sono qui e difendo il mio popolo e il potere del paese. Uno al resto del mondo: la Cina non verrà abbattuta da un virus e non stiamo nascondendo nulla. Se poi siano stati i pipistrelli a contagiare i pangolini, altra prelibatezza selvatica, è una delle tante idee sulla vita che hanno i cinesi lontani dal potere, quelli che si mettevano una mascherina di garza per sentirsi al sicuro e ideologicamente all’avanguardia. Non era così. Tuttavia si ricorre ancora ai metodi collaudati. Si legge in una circolare del partito del 1955 «che molti bacilli scelgono come vittime soprattutto funzionari e impiegati statali». Preveggenza? Fatto sta che Xi ieri si è messo la mascherina anche per proteggere se stesso.