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 2020  febbraio 11 Martedì calendario

La differenza tra il bilancio del 1996 e quello di oggi


11 Febbraio 2020 1Pagina16/17di 38COMMENTI11 FEBBRAIO 2020Il Sole 24 Ore
il bilancio va consolidato, ma l’italia non è quella del ’96Sul Sole 24 Ore del 6 febbraio scorso Innocenzo Cipolletta ha ricordato la manovra di bilancio del 1996 che consentì all’Italia di entrare nella moneta unica fin dall’inizio, riproponendola come modello per un intervento da effettuare oggi. La proposta è sicuramente utile, ma sono anche utili alcune considerazioni e precisazioni.
Nel 1996, quando entrò in carica il primo governo Prodi, la situazione della finanza pubblica italiana era molto precaria: l’indebitamento netto della Pubblica amministrazione superava il 7%, l’inflazione era pari al 5,13%, lo spread dei tassi di interesse a lungo termine rispetto al bund tedesco era di 540 punti base, il debito pubblico era pari al 117% del Pil. Dopo una manovra correttiva varata dal nuovo governo nel giugno del 96 il surplus primario era pari al 4,4% e quindi del tutto insufficiente a compensare un disavanzo pubblico superiore al 7%. Non fu quindi sorprendente la reazione di scetticismo e preoccupazione con cui fu accolta la decisione, presa nel settembre dello stesso anno, di integrare la manovra già prevista in modo che l’Italia potesse unirsi agli altri Paesi europei nella partecipazione all’euro.
Il tentativo appariva ed era molto rischioso, e da molti l’obiettivo era ritenuto impossibile da raggiungere. Tuttavia il ragionamento che fu alla base della decisione era abbastanza semplice: il surplus primario, dopo la manovra di giugno aveva raggiunto il 4,4%, quindi, considerando il fatto che la partecipazione all’euro dell’Italia avrebbe comportato la convergenza dei tassi di interesse italiani verso i livelli di quelli degli altri Paesi (nessuno allora metteva in discussione il principio “una moneta, un tasso di interesse”), si poteva concludere che le ulteriori correzioni strutturali necessarie non fossero particolarmente gravose. In altri termini, il problema non era quello di aumentare in modo permanente e strutturale il surplus primario di ulteriori 3-4 punti, bensì di creare le condizioni per convincere i mercati della credibilità dell’operazione in modo da ridurre, fino a eliminarla, la divergenza dei tassi italiani rispetto a quelli degli altri Paesi. Si trattava (e si trattò) di uno “scambio” tra un aumento una tantum dell’imposizione e una riduzione permanente della spesa per interessi.
È in questo contesto che venne varata l’operazione “eurotassa” che riprendeva una proposta avanzata da Stefano Zamagni (e quindi proveniente dall’entourage bolognese del Presidente del Consiglio) e che venne formulata e portata all’approvazione del Consiglio dei Ministri da chi scrive, e poi restituita ai contribuenti nella misura del 60% l’anno successivo, come promesso. Il ricorso allo strumento fiscale era inevitabile, dal momento che il Tesoro, sia per motivi di tempo che per ragioni politiche, non era in grado di intervenire sulla spesa se non con misure di tesoreria volte a rallentarne la dinamica. Il prelievo, molto progressivo, fu pari a 4.300 miliardi di lire (lo 0,6% del Pil) e per il solo 1997 il surplus primario raggiuse il 6,2%, per poi stabilizzarsi intorno al 4,6-4,8 per cento. E, ciò nonostante, la crescita del Pil risultò in quell’anno pari all’1,8%, risultato di qualche rilievo. I tassi di interesse scesero, come previsto, e l’operazione si concluse con un pieno successo.
È oggi replicabile una tale operazione? In una certa misura sì, ma la situazione attuale è molto diversa da quella di allora. Allora il governo era coeso, consapevole, determinato e compatto nel sostenere il ministro del Tesoro Ciampi, e anche quello della Finanze che si era assunto lo sgradevole compito di aumentare le tasse. L’opinione pubblica sosteneva lo sforzo del governo tanto che nonostante l’Eurotassa la popolarità dell’esecutivo non ne risentì, al contrario. Si operava inoltre in un contesto di fiducia e aspettative positive, mentre il programma di privatizzazioni contribuiva, insieme all’avanzo primario, all’ulteriore riduzione del debito.
Oggi la situazione è alquanto diversa. Il consolidamento del bilancio non è tra le priorità del governo né della politica in generale, e tanto meno dell’opinione pubblica. Tutti fanno affidamento sui margini di flessibilità europea per continuare a spendere (o detassare) in disavanzo. La giusta critica agli indirizzi macroeconomici dell’Unione, al patto di stabilità, al rigore teutonico, ecc., hanno fatto perdere di vista la peculiarità e la fragilità della situazione italiana che si esprime in uno spread più elevato di quello di Spagna e Portogallo, e persino, per un periodo, della Grecia. Tutti parlano di (improbabili) riduzioni di imposte, o di nuovi programmi di spesa e di incentivazione...
In sostanza la situazione attuale economica e politica è del tutto diversa da quella del 1996. Tuttavia la proposta di Cipolletta coglie il punto, e cioè che oggi l’unica possibilità di una riduzione non marginale della spesa pubblica consiste nel porre in essere politiche che rendano credibile per i mercati una riduzione, graduale, ma progressiva e costante del nostro debito pubblico. Si tratta di effettuare una correzione del bilancio, questa volta però strutturale e permanente, tale da eliminare per sempre il ricorso alle clausole di salvaguardia.
Un riordino delle aliquote Iva, prevedendo una sola aliquota, o due aliquote, potrebbe fornire 7-10 miliardi in parte rilevante derivanti dal recupero di evasione (che può essere stimato) in quanto verrebbe meno, o si ridurrebbe, la possibilità di arbitraggi sulle aliquote. L’impegno al contrasto all’evasione va accentuato e reso operativo al di là dei proclami: gli strumenti oramai sono in gran parte disponibili e si tratta di renderli pienamente operativi superando remore e resistenze che esistono anche nella attuale maggioranza. In tale contesto vanno recuperati i 3 miliardi previsti per incentivare il ricorso alla moneta elettronica che rappresentano un esempio da manuale di inutile spreco di denaro pubblico, e infine sarebbe possibile e auspicabile un intervento di riduzione delle spese fiscali e degli incentivi alle imprese.
In un Paese in cui crollano i ponti e le gallerie, deragliano i treni, le imprese chiudono o sono in crisi, le banche falliscono, i giovani emigrano, bisogna porre le premesse finanziarie per poter disporre di maggiori risorse per programmare gli investimenti, e ricostruire un’amministrazione pubblica funzionante, investire in ricerca e sanità, ecc. senza l’assillo derivante da un precario equilibrio di bilancio.
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Vincenzo Visco