il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2020
Intervista a Oliviero Diliberto
“Il più grande Paese del mondo è comunista. Ci sarà un motivo? È anche il Paese più efficiente, ne dovremmo prendere atto o no? È il luogo dove si seleziona la classe dirigente applicando il merito. E pure questo è un fatto. Se un indizio resta solo un indizio, e due indizi sono appunto due indizi, tre fanno una prova”. Oliviero Diliberto, comunista italiano in quiescenza per via dell’estinzione naturale del proprio partito (la data di morte risale a più di un decennio fa) si è legato sentimentalmente alla Cina dove insegna ai compagni studenti i rudimenti di diritto romano. La sua università è proprio a Wuhan, città che siamo stati costretti a conoscere e che ci insegue come un’ombra cattiva per via del coronavirus.
“Ha da aggiungere qualcosa forse al mio curriculum”
Certo: lei oggi è preside di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma e titolare della cattedra di Diritto romano.
Ancora qualcosina sarebbe da riferire.
Che è un comunista in quiescenza l’abbiamo detto. Comunista ma non pauperista. Tribuno colto. Conosce il mondo e apprezza le sue comodità.
Riferisca che non ho mai lasciato l’insegnamento. Non l’ho fatto quando ero impegnato da deputato in Parlamento, non l’ho fatto da ministro della Giustizia. Insegnavo gratis, naturalmente. Ma ho sempre tenuto a mente quale fosse il mio vero lavoro. Avere un lavoro è una rete di protezione enorme.
Le ha permesso di non essere uno di quegli alcolisti anonimi della politica.
Un drogato che non smette, che si rovina la vita, che risolve la triste coda della propria esistenza come un figurante qualsiasi. Sarebbe stata una condizione che non mi si addice e, se posso, il lavoro – qualunque lavoro – permette di affrancarsi da una passione, la politica appunto, che spesso e purtroppo si trasforma in ossessione. Permette quindi di essere più libero, di avere occhi per guardare il mondo, e fare e pensare ad altro.
Lei è un barone dell’università. Non ho messo il punto interrogativo, ho sbagliato?
Ho un rapporto vitale e paritario con i miei studenti che, detto tra parentesi, sono bravissimi.
Capito, è di manica larga.
Mi applico per rendere equo il giudizio. Se sei bravo e meriti il massimo dei voti da me avrai il massimo. Non mi pare un atto di esuberanza giovanilistica.
A Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, che durante il periodo di carcere a Rebibbia per scontare la sua condanna, si iscrisse a Giurisprudenza, quanto dette al suo esame?
Trenta e lode.
Vede? È di manica larga.
Affatto. Era molto preparato e mi parve giusto premiarlo. Ho dato trenta anche a un fior di camorrista. Lì però capii che aveva abusato un po’ con la conoscenza mnemonica. Gli feci i complimenti ma gli dissi che, insomma, è sempre meglio comprendere a fondo. Mi rispose: ho tanto tempo a disposizione per cui posso permettermi di imparare a memoria ogni singola parola. Sul tempo a sua disposizione non ebbi da obiettare.
Ha da riferire di altri studenti modello di Rebibbia?
L’omicida della contessa Filo della Torre, il filippino. E poi un altro camorrista, non so se di rango o meno.
Trenta all’uno e all’altro.
No, in quei casi no.
Bibliofilo.
Venticinquemila libri.
Anche Dell’Utri ha una grande biblioteca. Siete amici?
No, l’ho visto tre volte in vita mia.
Il suo più grande successo politico da ministro della Giustizia (era il governo D’Alema) fu la riabilitazione di Palmiro Togliatti attraverso la sua scrivania, ritrovata in un sottoscala e riproposta nella sua sede di elezione, a imperitura memoria del comunismo. Dopo di che il comunismo chiuse i battenti.
L’Occidente ha pagato il fallimento perché chi ha rappresentato quella grande idea ha fallito. Naturalmente, mi ci metto anch’io.
Perché i poveri non sono comunisti?
I poveri sono stati comunisti. Il Pci in Italia ha difeso le classi meno abbienti. Poi ha immaginato che il successo lo conferissero altri ceti sociali e ha progressivamente dimenticato quello che si chiamava il proletariato, la classe operaia. Che, a ragion veduta, ha restituito la cortesia.
E lei ha traslocato ad Oriente, nella serie A del comunismo.
I cinesi hanno pensato di elaborare un codice civile, di cui erano sprovvisti. Senza il diritto romano non esiste codice. Visto che in Italia c’era un professore di diritto romano, per di più ministro della Giustizia e comunista, hanno pensato di coinvolgerlo.
I cinesi conoscono bene i loro doveri ma non i loro diritti. È una democrazia autoritaria, contro la quale lei farebbe le barricate.
È un modello di democrazia differente. Giudicare con i nostri occhi, con la nostra cultura, ci induce a una alterazione della percezione.
Vuol dire che le libertà fondamentali così compresse sono un problema di percezione?
Voglio dire che le conquiste, anche dal punto di vista delle libertà fondamentali, sono tante. Dobbiamo ricordare però la storia di quel Paese, lo stato dell’economia, la millenaria differenza culturale tra Oriente e Occidente. Se tira una linea: ecco da dove sono partiti, ecco dove sono arrivati, la dimensione dell’evoluzione civile e politica è impressionante.
Ha parlato di meritocrazia.
Ho riferito un giudizio di un osservatore americano, Daniel Bell, in un volume edito dalla Luiss, l’università della Confindustria. Lui scrive che c’è più merito nelle scelte degli uomini dell’establishment in Cina che non negli Usa.
Da quanto manca da Wuhan?
Purtroppo questa emergenza mi tiene lontano dalla mia università (la Zhongnan University of economics and law). Ho ammirato la compostezza, l’efficienza, la serietà con cui stanno facendo fronte a questo disastro. Ho anche ammirato la capacità del presidente Sergio Mattarella di non far mancare, in un momento di difficoltà, una voce di amicizia e tolleranza.
Resta comunista.
Ma certamente!
Come Bertinotti. A proposito, lui festeggia gli ottant’anni. Sarà un evento. Inviti a destra e a manca. Lei ci sarà?
Non sono stato invitato.