La Stampa, 10 febbraio 2020
Ritratto di Spike Lee
È talmente identificato con Brooklyn che pochi ricordano che è originario di Atlanta, e ne è anche molto orgoglioso: «È la città di Martin Luther King», ricorda, «ed è il luogo dove è iniziato il crollo degli Stati confederati». Shelton Jackson Lee, questo è il suo vero nome, ha studiato con attenzione e rabbia la guerra civile americana, e ha chiamato la sua casa di produzione «40 Acres and a mule»: è quanto venne attribuito a ogni uomo di colore come compensazione per la schiavitù. In questi giorni è felice per essere stato scelto come presidente della giuria del Festival di Cannes, e ne parla mettendo l’accento sul fatto di essere «il primo afro-americano».
A volte le sue posizioni sono eccessive, altre volte persino irritanti, ma è impossibile scinderle da quello che Spike Lee è nel suo intimo, e che ha espresso sin dai tempi di Lola Darling. È un uomo intelligente e pieno di talento, Spike, che sa mescolare l’indignazione all’ironia e la furia alla pietà: il ricondurre ogni cosa all’abominio subito dal suo popolo è parte integrale della sua potenza espressiva. Questo atteggiamento ne rende incostanti i risultati, che divengono eccellenti quando gli elementi opposti trovano una compiutezza artistica, meno interessanti quando il furore lascia il posto al messaggio.
Si è laureato alla New York University con un saggio di regia che venne presentato a «New Directors/New Films»: era la prima volta che un film studentesco riceveva un simile onore, e fu quel riconoscimento a dargli il credito per realizzare Lola Darling. I 175 mila dollari del budget vennero donati dalla nonna Zinnie: furono in molti a prendere la signora per pazza, ma quel piccolo film in bianco e nero incassò negli Stati Uniti più di sette milioni di dollari e fu candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Recitava anche lui, rivelando un carisma sorprendente a dispetto di un fisico gracile e minuscolo. Qualcosa di magnetico e assolutamente inedito sullo schermo, che nasceva da un inestinguibile orgoglio di appartenenza: fu questo il motivo per cui si offese quando lo definirono il «Woody Allen nero».
Proviene da una famiglia colta, Spike: il padre William è un apprezzato compositore e la madre Jacqueline una docente di arte. È stata lei a dargli il soprannome con cui è diventato famoso e a trasmettergli il legame con la famiglia, a cominciare dalla moglie Tonya e i tre fratelli, apparsi spesso nei suoi film. Le polemiche lo hanno inseguito sin dai tempi di Fa’ la cosa giusta, formidabile racconto di un incidente a sfondo razziale a Brooklyn: Wim Wenders decise di assegnare la Palma d’Oro a Cannes a Steven Soderbergh e lui dichiarò: «Wenders deve stare attento, ho una mazza da baseball con il suo nome». Quando il film fu ignorato agli Oscar a favore di A spasso con Daisy, Spike urlò: «Chi si ricorderà tra vent’anni di questo fottuto film?».
La sorte ha voluto che lo scorso anno si ripetesse lo stesso schema: da un lato BlacKkKlansman, potente e pieno di rabbia, dall’altro il delizioso, ma certamente meno incisivo, Green Book. E ancora una volta il film vincitore ha raccontato la storia di un uomo di colore che accompagnava in macchina un bianco. Sebbene in questo caso la candidatura per la sceneggiatura si sia trasformata in una vittoria, e tre anni prima gli fosse stato attribuito un Oscar alla carriera, la nuova, violentissima reazione è stata una delle cause per cui l’Academy ha invitato un migliaio di nuovi membri, tenendo nella massima attenzione il criterio della diversità.
Spike non ha certo paura delle controversie e a volte si ha la sensazione che le cerchi: non c’è gesto, battuta o persino indumento che non sia dichiarazione imprescindibile. In Mo’ Better Blues, la definizione di alcuni personaggi ebrei come Schylock scatenò un putiferio, e Spike affermò: «I dirigenti della Mca-Universal sono ebrei, non mi avrebbero permesso di fare un film razzista». Poi sottolineò: «I capi degli studios sono ebrei: questo è un fatto». Sa benissimo che questo atteggiamento è ormai parte del suo personaggio e trasferisce il suo talento della provocazione anche nello sport, dove è un fan agguerrito e spiritoso: leggendari gli scambi verbali con Reggie Miller, acerrimo rivale dei prediletti Knicks. Non c’è partita che non lo veda a bordo campo a inscenare uno spettacolo, e la rivalità con Miller è diventata il soggetto di un documentario.
Tuttavia nessuna polemica è stata aspra come quella con Charlton Heston, che ritenne responsabile morale dei massacri nei college per il suo appoggio alla libera diffusioni delle armi: «Dovrebbero sparargli con una calibro 44», disse, e Heston lo sfidò a farlo, lo avrebbe atteso senza paura. A quel punto Spike chiarì che quella, ma soltanto quella, era una battuta. Non andò meglio con Clint Eastwood, che accusò di non aver celebrato neanche un soldato di colore nei due film Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima. Eastwood gli disse «Tieni la bocca chiusa» e gli diede dell’ignorante, poiché nella storia reale non erano presenti neri. Spike reagì dicendo «non siamo in una piantagione», e dovette intervenire Steven Spielberg per far riappacificare i due.
Con il tempo ha dimostrato che è in grado di realizzare con straordinaria professionalità anche pellicole su committenza, quali ad esempio Inside Man, ma le sue prove migliori sono quelle che nascono da una necessità rabbiosa e insopprimibile, come La venticinquesima ora o Malcolm X, che avrebbe dovuto essere girato da Norman Jewison: Spike gli spiegò che solo un nero avrebbe potuto realizzarlo, e Jewison si fece da parte, appoggiando con fervore il suo lavoro.
Le relazioni con artisti bianchi non sono sempre segnate dal contrasto: una volta tentai di essere a mia volta provocatorio e gli chiesi se riteneva che un regista bianco potesse realizzare con realismo una storia con protagonista gente di colore. Non esitò un attimo prima di dirmi Ray, il film di Taylor Hackford su Ray Charles, e poi mi ricordò la lunga lista di attori bianchi che avevano recitato magnificamente con lui, a cominciare da Jodie Foster, John Turturro e Willem Dafoe. Concluse il discorso dicendo che «la differenza tra i miei personaggi e quelli di Hollywood è molto semplice: i miei sono autentici».
Da anni tenta di realizzare un film su Jackie Robinson, il grande campione di baseball di colore, e sulla rivalità tra Joe Louis e Max Schmeling, il pugile tedesco idolatrato dal nazismo che sconfisse Louis nel primo match e fu massacrato nella rivincita ma poi lo aiutò quando quest’ultimo finì in miseria: «Io sono convinto», spiega, «che la gente riesca a vedere attraverso i film quello che ha dimenticato».
Non è sorprendente che tra suoi registi preferiti ci sia Michael Moore, in particolare Bowling a Columbine, e tra i politici Bernie Sanders. Crede nell’impegno e nel dovere civico, e ama insegnare nella sua Alma Mater: i seguitissimi corsi di regia alla New York University partono dall’idea di necessità: «Se siete qui dovete avere la passione di voler fare questo, e soltanto questo, tutta la vita». Gli studenti amano tutto del suo approccio, specie quando fa a pezzi i successi di Hollywood: «Volete dirmi che dobbiamo chiamare film anche American Pie, dove un personaggio mette il suo pene in una torta?». Lungi dall’essere pacificato con un mondo ancora troppo ingiusto, ha dichiarato recentemente di credere in qualcosa di superiore, forse in Dio: «Tutto questo non può essere accidentale. E per quanto mi riguarda sono stato fortunato e benedetto».