il Giornale, 10 febbraio 2020
Obiettivo 130 anni
Per Dorian Gray l’elisir di lunga vita stava in un quadro, per Nicolas Flamel nella pietra filosofale. Qualcun altro se la immaginava come una fontana a cui abbeverarsi, e restare giovani per sempre. Oggi il segreto di una vita senza fine sta invece in laboratorio.
La biologia dell’invecchiamento, un settore di ricerca nato negli ultimi decenni, è già arrivata alla fase delle sperimentazioni, su animali ma anche sull’uomo. Con un obiettivo ben chiaro: comprendere i meccanismi molecolari e cellulari che stanno alla base della decadenza del corpo per manipolarli, rallentarli e invertirli. Allontanando sempre di più il momento della morte, o quantomeno dell’insorgenza delle malattie legate alla vecchiaia: dalle patologie cardiovascolari ai tumori, dall’artrite all’Alzheimer. E con un principio di base: l’invecchiamento non è un processo inevitabile, da accettare passivamente, ma qualcosa che si ha tutto il diritto (e presto la possibilità) di controllare.
A Colonia, in Germania, Dario Valenzano dirige un gruppo di ricerca sull’invecchiamento al Max Planck Institute. Il (...)
(...) suo laboratorio è pieno di colorati pesciolini d’acqua dolce, i killifish: in quanto vertebrati meno longevi in assoluto (in laboratorio vivono 3-4 mesi), sono la specie perfetta da studiare per avere riscontri in tempi brevi. I killifish, su cui il ricercatore italiano lavora da diversi anni, sono l’esempio plastico di come l’aspettativa di vita di un organismo possa essere modificata sensibilmente. Valenzano e il suo team hanno scoperto per esempio che, alterando la flora intestinale di questi pesci attraverso il trapianto in individui di mezza età di microbi provenienti da esemplari giovani, la loro vita aumenta fino al 50%.
DAI PESCI ALL’UOMO
Dai pesci ai topi, altre «cavie» utilizzate dal ricercatore, questi risultati trovano un’applicazione anche sull’uomo. «Noi creiamo le conoscenze di base che poi vengono utilizzate negli studi clinici per valutare se è possibile intervenire anche sulle malattie autoimmuni e sull’invecchiamento», spiega Valenzano, che parallelamente sta lavorando su un gruppo di ottuagenari per capire se la manipolazione del microbioma intestinale possa migliorare la loro salute come accade con quella degli animali. «Il nostro intento non è quello di allungare la vita o di raggiungere l’immortalità – chiarisce il biologo -. Ma come nell’ultimo secolo abbiamo quasi completamente abbattuto la mortalità infantile e ampliato l’aspettativa di vita attraverso l’accesso all’acqua potabile, le vaccinazioni e gli antibiotici, così penso che con i nostri studi riusciremo ad aumentarla ancora di più».
Chi ha un approccio più radicale è la scuola statunitense. Oltreoceano la parola chiave è una: riprogrammazione cellulare. Il medico giapponese Shinya Yamanaka nel 2012 vinse il premio Nobel per la medicina (insieme al britannico John Gurdon) per aver scoperto che cellule mature possono essere riprogrammate per diventare cosiddette «staminali pluripotenti indotte». Queste staminali possono poi essere trasformate in qualunque tipo di cellula del corpo: un fibroblasto, cioè una cellula della pelle, può per esempio diventare una staminale pluripotente per poi dare vita a un neurone oppure a un epatocito, cioè una cellula del fegato. Un altro italiano, Vittorio Sebastiano dell’Università di Stanford, in California, è partito da questa scoperta per mettere a punto un processo di vero e proprio ringiovanimento delle cellule. «Abbiamo scoperto che, riprogrammando le cellule con il metodo Yamanaka solo per un tempo molto breve, queste non regrediscono così tanto da diventare simil-embrionali, ma semplicemente ringiovaniscono», spiega il ricercatore, il cui lavoro sarà pubblicato a breve sulla rivista scientifica Nature Communications. «Abbiamo isolato alcune cellule da pazienti di età diverse, dai 10 ai 90 anni, e le abbiamo trattate in laboratorio dimostrando che riuscivamo a riportarle indietro nel tempo a uno stadio più funzionale», racconta.
ADDIO RIGETTO
Le applicazioni sono tante, e su livelli diversi: ringiovanendo per esempio il ginocchio di una persona che soffre di osteoartrite si ridurrà l’infiammazione locale, quel paziente tornerà a camminare, ma si innescherà anche una serie di effetti benefici su tutto il corpo. Se si guarda oltre, poi, i potenziali impieghi sono pionieristici: con le staminali pluripotenti si potrebbero creare organi in vitro a partire da altre cellule dello stesso paziente, in modo da eliminare il rischio di rigetto. O ancora le si potrebbe utilizzare per riparare tessuti danneggiati in modo irreversibile, come nel caso delle lesioni spinali.
Che tutto ciò abbia ripercussioni sulla longevità umana è innegabile. «Il primo bambino che vivrà 130 anni è già nato», ha detto in una recente intervista al quotidiano tedesco Der Spiegel il biologo e maestro della coltivazione di staminali Juan Carlos Izpisua Belmonte del Salk Institute di La Jolla, sempre nell’avanzatissima California. La dichiarazione mette in discussione il concetto della soglia biologica alla vita, una sorte di età limite oltre la quale un organismo non può più vivere, un concetto parecchio dibattuto nell’ambiente. Ma è davvero così? «Mettendo insieme tutte le tecnologie con cui si può intervenire oggi sull’invecchiamento è probabile che si vivrà fino a 130, anche 150 anni – risponde Sebastiano -. Sarà una rivoluzione. Ma facciamo attenzione alla qualità della vita, più che al numero di anni vissuti».
Per Luigi Ferrucci, direttore scientifico del National Institute on Aging degli Stati Uniti, questo campo di ricerca sta vivendo un «momento magico». Se infatti 50 anni fa l’obiettivo era studiare l’invecchiamento per essere in grado di distinguerlo dalle malattie e concentrarsi meglio su queste, nell’ultimo decennio si è capito che, se non si conoscono i meccanismi che stanno alla base della senescenza, sarà impossibile studiare le patologie croniche e aumentare l’health span, cioè l’arco di tempo in cui una persona non è semplicemente viva ma è in salute.
ORDINE E CAOS
Con oltre mille persone impiegate internamente, oltre all’attività di assegnazione dei fondi pubblici per finanziare la ricerca, il Nia è il più grande ente di ricerca specializzato a livello mondiale e il riferimento negli Usa quando si parla di invecchiamento. Ferrucci è uno dei tanti italiani che sono all’avanguardia nel settore. La sua definizione di invecchiamento è quasi filosofica: «È una continua lotta tra meccanismi che determinano caos nella nostra biologia e altri che, come piccoli operai, tentano di riparare questi danni. Si invecchia non perché c’è più danno biologico nell’organismo, ma perché i meccanismi di riparazione e sorveglianza sono meno efficienti e non ostacolano più l’accumulo di quel danno, che poi si trasforma in fenotipo, cioè si manifesta». E tuttavia, secondo Ferrucci, la battaglia tra caos e operai riparatori non si può vincere all’infinito. E nemmeno lo si vuole. «Nel corso dei miei studi ho parlato con tante persone anziane: mi dicevano che quello che temevano non era la morte, ma non essere più autosufficienti», spiega.
IL NEMICO? LE CALORIE
Nonostante la distanza geografica, in Australia condivide lo stesso approccio Luigi Fontana, direttore della cattedra di Medicina metabolica traslazionale all’Università di Sydney: bisogna concentrare gli sforzi non sull’aumentare la longevità, ma sul migliorare la vita. Come? Innanzitutto cambiando abitudini alimentari. «La nutrizione è l’intervento più potente per allungare la durata della vita in maniera drastica e per prevenire molte, se non tutte, le patologie croniche degenerative», dice il medico e docente.
La sua teoria si basa sulla «restrizione calorica»: mangiare meno, riducendo di circa un terzo l’introito calorico senza malnutrizione e assumendo tutte le vitamine e i sali minerali necessari per rimanere in salute. Studi condotti sulle scimmie hanno dimostrato che, se in media un esemplare viveva 26 anni, quelli che seguivano tale regime superavano i 40, l’equivalente di 120 anni per l’uomo. Fontana ha trasferito tutto ciò sugli esseri umani, scoprendo che gli effetti sono identici. «Il cuore torna a essere come quello di un ragazzino, le arterie sono più elastiche, i fattori di rischio tumorale più bassi, le articolazioni funzionanti», spiega. Come è possibile? Con la restrizione calorica si attivano a livello cellulare delle «vie di segnale», in gergo nutrient sensing pathway, in grado di ringiovanire le cellule stesse, aumentando tra le altre cose la loro capacità di riparare i danni al Dna, il loro potere antiossidante e i meccanismi di autofagia che portano le cellule a consumare materiale di scarto. «Oggi possiamo dire con sufficiente certezza che si può arrivare a 90 anni con l’età fisiologica di un 50enne, e magari vivere fino a 100 o 110 anni in un corpo sano». Ma quello che conta, per Fontana, è cambiare approccio. «Il modello medico attuale, privo di qualunque strategia preventiva, fa sì che tantissime persone anziane trascorrano gli ultimi 20-30 anni della loro vita dipendenti da farmaci, interventi, bypass o chemioterapie. È una situazione insostenibile anche dal punto di vista economico», spiega il ricercatore. Un’altra via è possibile, anche senza sognare l’immortalità. «Oggi la ricerca ci dice che si può vivere una vita lunga e soprattutto sana riducendo drasticamente il rischio di ammalarsi, godendosi la bellezza dell’esistenza con un cervello che funziona e che permette di concentrarci sulle cose davvero importanti. E allora sì che gli anni più avanzati diventano degni di essere vissuti».