Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  febbraio 10 Lunedì calendario

Intervista a Caster Semenya

NEW YORK — Caster Semenya, la reietta. Quella espulsa dall’atletica perché intersex, ora a 29 anni gioca a pallone. Non una qualunque: 2 ori olimpici sugli 800 metri e 3 titoli mondiali.
Dieci stagioni da dominatrice prima di essere fermata dalle nuove regole sul livello di testosterone e dal voyeurismo mondiale: è un lui che corre con le donne o una lei che corre come un lui? Da qui il suo tweet: mi deridono perché sono diversa, io rido di loro perché sono tutti uguali. La voce di Caster è baritonale, il sorriso aperto, è a New York per presentare la nuova linea olimpica 2020 della Nike, suo sponsor.
Si sente ancora una bandita?
«Sono in pace con me stessa. Con quello che sono e con quello che ho fatto. Non guardo indietro con rabbia. Sono tornata al calcio, mio vecchio amore di quando avevo 7 anni, giocavo nella squadra di mio fratello, tutti ragazzi, e nessuno riusciva a portarmi via il pallone. Sono tesserata per il Jvw di Bedfordview, mi diverto, mi metto dove serve all’allenatore, anche se preferisco organizzare la difesa. Non sono la capitana della squadra, ma non ho bisogno della fascia per essere ascoltata, mi danno retta lo stesso».
Meglio le scarpette o gli scarpini?
«A vincere da soli c’è più gusto, ma anche condividere è bello. In atletica devi motivarti da te, trovare ogni giorno la forza per allenarti, in gruppo e nel calcio hai la responsabilità anche degli altri, ma a volte puoi anche togliertela dalle spalle. Detto questo voglio andare ai prossimi Mondiali femminili con la nazionale sudafricana, Banyana Banyana ».
Da calciatrice chi preferisce?
«Non Messi e Ronaldo, espressione del calcio europeo.
Perché dovrei guardare a loro?
L’Africa ha avuto e ha ottimi giocatori. Da Eto’o a Drogba a Yaya Touré a Mané, Koulibaly e Salah. Mi dicono: ma l’Africa come Africa non vince mai. Ci credo: i migliori giocano fuori, si adattano al gioco europeo e quando tornano in nazionale fanno fatica a trovare un’omogeneità. Ma questo non significa che il loro livello sia inferiore. Questo non mi impedisce di tifare Manchester United e Barcellona e per le due squadre di Milano».
A Tokyo potrebbe fare la sorpresa di esserci, magari nei 5.000 metri.
«Potrei sì, il regolamento me lo permette. Con il mio allenatore ci stiamo pensando, ma non so in quale specialità, tengo una porta aperta, anche se ho accettato di farmi da parte perché mi sembrava saggio non andare a una guerra infinita. Lo ripeto: so chi sono, se sono sbagliata geneticamente non è colpa mia, niente è mai stato facile per me, anche nascere nella polverosa Fairlie, regione del Limpopo, al confine con il Mozambico. Sono partita da lì a 14 anni verso Soweto, non avevo mai visto una città, non sapevo di chi fidarmi, con chi uscire. E lì ho capito che il mondo per me sarebbe stata una giungla e che avrei dovuto affrontarlo da soldato, non lo dico per la passione delle armi, ma da persona che deve sempre difendersi ed evitare trappole. Lo sport mi ha aiutato, ma l’invidia ha fatto il resto».