la Repubblica, 10 febbraio 2020
Mi pento: non ho visto Sanremo
Sono tra i 50 milioni di italiani che non hanno visto Sanremo: e me ne pento. Mi giustifico perché per me è proprio una questione fisica invincibile, subito all’inizio della prima serata la giacca stroboscopica di Amadeus, le sue grida gioiose e gli occhi spalancati nel terrore dell’immane compito, avevano turbato il mio pace-maker. Ma ho subito provveduto a rimediare alla mia fragilità e oggi credo di saperne quanto se non di più di quelli che l’hanno visto per ore e ore, anche nei momenti di massima stanca personale e del programma; e ho compitato da penitente la valanga incessante di video, informazioni, tweet e social, pettegolezzi, lamenti, attacchi, opinionismi, innamoramenti, prime pagine di quotidiani. E i miei intellettuali di riferimento, registi teatrali, docenti universitarie, critici cinematografici, poeti? Tra loro dibattiti serratissimi sulla bellezza di famiglia di Leo Gassmann, sulla mancanza per minaccia femminista delle vallette e dei loro magnifici vestiti, però nessuno osa rimpiangere la famosa farfallina pubica di Belen Rodriguez, allora, 2012, soave oasi di bellezza innocente.
Adesso quelle cinque serate trionfali che hanno unito l’Italia tutta, persino attorno a un reperto di anni migliori, la svizzera sovranista Rita Pavone, (arrivata al 17esimo posto, meglio se stava a casa) mi balenano incessantemente in testa coi loro arcobaleni rossi e blu e quella specie di ovaie contenenti le orchestre (mi pare), e l’odiosa scalinata inamovibile perché consente all’Ariston, grande come un vecchio cinemino, di apparire dal video come il Dolby Theatre degli Oscar. E posso anche io vantarmi, contrariamente a chi, roba da anni ’70, si vanta del contrario, di aver partecipato contenta a questo attimo di verità italiana e solo italiana (non ho capito se c’era l’Eurovisione) nel suo accumulo di ovvietà, travestimenti, sorprese da oratorio anni ’50 e persino canzoni che i critici hanno molto apprezzato, come hanno promosso tutto il festival, tutti i cantanti, tutte le gag. Io più riflessiva sulle canzoni e i cantanti, essendo credo l’unica vivente che ricordi Nilla Pizzi vincitrice nel ’51 (Festival per radio) con Grazie dei fior, Claudio Villa nel ’57 vincitore con Corde della mia chitarra in guerra sanguinosa con Luciano Tajoli vincitore nel ’61 con Al di là.
Ben dieci-quindici milioni di italiani hanno espresso passione e condivisione, per qualche ora esenti dal costante cattivo umore, pare, alcuni persino sorridenti; bisnonne soprattutto pugliesi innamorate di Diodato, anche per il suo viso anni ’20, somigliante a quello di un superdivo del cinema muto, il Rodolfo Valentino da Castellaneta, provincia di quella Taranto a cui il cantante ha dedicato la meritata, dicono gli esperti, vittoria; adolescenti sardinanti, fan del peccaminoso di buon cuore Junior Cally con canzone politicamente neutrale «odio il razzista che pensa al paese ma è meglio il mojito …e pure il liberista di centrosinistra che perde partita e rifonda il partito…»: ma le giurie di alta moralità non dimenticano una sua canzone villana con le signore e No grazie arriva penultima su 23 concorrenti e contemporaneamente, senza maschera, il reprobo viene definito bellissimo dal web, e ne diventa un idolo. Tutto lo scibile televisivo retrò in cinque notti, con la gioia costante e talvolta esagerata che è il metodo Amadeus di presentazione, abile nelle pause suspense, e il generoso Fiorello, che certo è molto più creativo di quanto un festival canoro richieda, e ne ha improvvisate di ogni colore, dandosi pure a travestimenti entusiasmanti, perché ce lo hanno insegnato i Legnanesi, non un travestito ma un uomo che si veste da donna con parrucchino e tacchi a spillo, non facendosi donna ma irridendo la donna, ha sempre gran successo. Si son viste cose apparentemente stonate in un contenitore così fuori tempo, così zuccheroso, così ammorbante, tipo il bel discorso necessario di Rula Jebreal, che, intelligente, si è presentata al massimo del suo fascino, una sirena pericolosa e inattaccabile; allo spettatore del tipo che bastona i gay si son fatte accettare, sul palcoscenico della massima tradizione familista, varie coppie di maschi che si baciano a secco o con lingua, e chissà che ripongano i bastoni. Per i bambini poi c’era il fiabesco Achille Lauro che l’ultima sera pareva Cate Blanchett in Elizabeth del 1998, solo da dimenticare la sua frase, «una donna che sapeva tener testa agli uomini»: più che altro la regina gliela faceva tagliare, anche alle donne. Lauro comunque è il più amato, vedo su Facebook, dalle signore intellettuali. E a proposito di donne, Amadeus non ha dimenticato lo spavento per una frase stupidella ma innocua appartenente al fallito immaginario maschile, che imbufalendo le signore sempre vigili, lo ha reso colpevole e ha fatto storia. Però la proba impostazione pro donne Madonne non ha giovato alle donne: la prima in classifica è Tosca al 6° posto, comportandosi da signore, con i maschi impauriti al pensiero di gaffe con interrogazioni parlamentari delle onorevoli, non hanno mai fatto notizia. E intanto il Festival procedeva come sempre, saluti a mamma e papà, apparizione di handicappato, cantante nonno che manda baci al nipotino neonato, omaggi a forze dell’ordine, fantasmagoria di presidente di regione e altra eccellenza con orride statuette da consegnare a vincitori. Rimasugli di vecchi cantanti ambosessi anche in coppia e naturalmente il grande Benigni che il popolo adorava e quando appariva in televisione gli spettatori erano milioni: ma adesso molto popolo ha perso ogni ingenuità e ogni senso della bellezza e voglia di sapere e, figuriamoci Il Cantico dei Cantici, che deve essere una roba da professoroni, ha un po’ immusonito persino una parte della lussuosa canuta platea.