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 2020  febbraio 10 Lunedì calendario

Vittorio Bachelet raccontato dal figlio Giovanni

«Preghiamo per i nostri governanti», esortò Giovanni Bachelet al funerale del padre Vittorio, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura assassinato due giorni prima dalle Brigate rosse. Dal pulpito della chiesa, durante l’orazione dei fedeli, fece i nomi del capo dello Stato, Sandro Pertini e del presidente del Consiglio Francesco Cossiga, seduti in prima fila; poi citò «i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila per la democrazia, con coraggio e amore». 
Parole da tempo di guerra, accolte dal silenzio commosso e teso di autorità, amici e semplici cittadini. Poi aggiunse: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Subito scattò un applauso, forse più di stupore che di convinta adesione, ma forse anche liberatorio. Come se si fosse svelata una nuova, possibile forma di resistenza all’imbarbarimento in cui il terrorismo stava risucchiando l’Italia. 
Era il 14 febbraio 1980, Vittorio Bachelet era stato ucciso il 12, all’università di Roma La Sapienza, dove insegnava Diritto alla facoltà di Scienze politiche. La stessa di Aldo Moro. Quarant’anni dopo suo figlio Giovanni – all’epoca venticinquenne ricercatore negli Stati Uniti – insegna pure lui alla Sapienza, ordinario di Fisica, dopo essere stato deputato del Partito democratico dal 2008 al 2013. E ricorda bene la genesi di quella preghiera. Sorprendente al punto da conquistare le prime pagine dei giornali, ma non per una famiglia credente e militante della Chiesa conciliare come quella costruita da Vittorio Bachelet, che prima di essere eletto al Csm fu presidente dell’Azione cattolica e consigliere comunale a Roma per la Dc guidata da Moro e Benigno Zaccagnini. 
«Con mamma, mia sorella, gli zii – racconta Giovanni – decidemmo di provare a dire quello che avrebbe detto mio padre di fronte a persone non troppo abituate ad ascoltare il messaggio del Vangelo, per lui così importante. Purtroppo di funerali di Stato ce n’erano tanti in quel periodo e una volta, con il suo tono un po’ burlone, riferendosi a un paio di politici notoriamente non cattolici mi disse: “Certo sono situazioni tragiche, ma chissà che tutte ’ste messe non gli facciano bene...”. Noi tentammo di fargli fare una buona figura, riaffermando i valori della democrazia e della Costituzione a cui papà aveva dedicato la vita». 

Non era facile in quegli anni di assalto alle istituzioni, morti e feriti in strada, leggi d’emergenza: «Ma era anche una questione di coerenza. Quando fu trovato il cadavere di Aldo Moro andammo con qualche amico davanti alla sede della Dc, dove alcuni provocatori invocavano a gran voce la pena di morte. Gli intimammo di smetterla o di allontanarsi perché la storia di Moro, padre costituente e professore di Diritto penale, non era compatibile con le loro grida. Proprio sotto l’attacco del terrorismo era necessario spegnere le strumentalizzazioni antidemocratiche, sebbene ci fosse la sensazione di trovarsi sul ciglio del burrone». 
Pure Vittorio Bachelet era preoccupato per il clima di guerra che si respirava in Italia: «Guardava con inquietudine alla militarizzazione della vita quotidiana, perché temeva che fornisse ulteriori argomenti a chi protestava contro “lo Stato imperialista delle multinazionali”. Tanto più che tutte quelle scorte si rivelavano insufficienti a proteggere le persone, come dimostrò la strage di via Fani. A Moro era molto legato, fu lui a proporgli di andare al Csm. Durante il sequestro non volle prendere una posizione pubblica a favore o contro la trattativa con le Br; pensava che il compito di chi era nelle istituzioni fosse di lavorare in silenzio per liberare l’ostaggio. La lacerazione tra lo Stato e la famiglia fu un’ulteriore sofferenza per lui, amico e compagno di studi di Carlo, magistrato e fratello di Aldo». 

È probabile che anche Bachelet, in quel contesto, temesse per la propria vita: «Una sera vedemmo insieme un servizio del telegiornale sul processo torinese ai capi storici delle Br, con l’intervista a un giurato popolare. Il giornalista gli chiese se avesse paura, e papà ironizzò sull’intelligenza della domanda, peraltro davanti a una telecamera. Ma il giurato rispose: “La paura ce l’ho, ma me la tengo”, e mio padre commentò ammirato: “Ecco un uomo vero, senza retorica”. Dopo la sua uccisione pensai che forse s’era identificato in quell’uomo». 
L’omicidio del vicepresidente del Csm arrivò al culmine di una carneficina di toghe e uomini in divisa: «Ricordo che alla camera ardente allestita al Csm c’era il registro con l’elenco dei visitatori, mi avvicinai e su una riga lessi le lettere Br. Difficile non immaginare una forma di rivendicazione giunta fin lì, camuffata tra centinaia di nomi; riflettei sul clima di omertà che circondava il terrorismo e la violenza politica, paventato anche da Moro, che permetteva a queste persone di muoversi e infiltrarsi senza timore di essere riconosciuti. Come accadde pure all’università. Dopo il funerale io tornai subito negli Stati Uniti, dove vivevo da qualche mese e sarei rimasto un altro anno, senza avere tempo di assistere alle reazioni all’omicidio di papà, né a ciò che avevo detto in chiesa. La nostra famiglia non si costituì parte civile nel processo ai brigatisti responsabili del delitto, perché ritenemmo che la questione giudiziaria fosse di esclusiva competenza dello Stato, colpito nella sua persona. Fu una decisione consequenziale alla nostra preghiera». 
Da parecchi anni gli assassini di Vittorio Bachelet, scontate le pene, sono tornati liberi: «Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e ritengo che mio padre come Aldo Moro, due persone che hanno dato la vita per la Repubblica e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò. L’incontro con i terroristi non l’ho mai cercato; l’ha fatto mio zio Adolfo, fratello di papà, che era un gesuita. A me è capitato casualmente, anni dopo, di stringere la mano alla donna che sparò a mio padre, e non ricordo particolari sensazioni. Nella legislatura in cui sono stato deputato, assieme a Sabina Rossa e Olga D’Antona (figlia e moglie di altre due vittime delle Br, ndr) presentammo un disegno di legge per interrompere la prassi di pretendere dagli ex terroristi un contatto con i familiari delle persone colpite, a riprova del loro “sicuro ravvedimento”; proponemmo che ad accertare “il completamento del percorso rieducativo” fossero solo giudici e operatori penitenziari, senza mettere in mezzo i parenti delle vittime. Ma la proposta non venne nemmeno posta in discussione». 
Restano, quarant’anni dopo, i ricordi e gli insegnamenti di un genitore che sebbene molto impegnato nella vita pubblica non fece mai sentire la sua assenza in famiglia: «Papà è sempre stato molto presente, anche dall’America continuavamo a scriverci e telefonarci, sebbene non con la frequenza consentita oggi da Internet. E ogni volta che gli chiedevo “come stai?” rispondeva: “Bene, quando ti sento”. Della sua morte mi avvisarono due amici, chiamati da mia sorella e da un giornalista legato a papà: in America vivevo da solo, i miei non vollero dirmelo al telefono. Io stavo ancora dormendo perché lì era l’alba o poco più, mi svegliarono bussando forte alla porta. Il primo pensiero fu di trovare un aereo per tornare a casa. Poi venne tutto il resto».