Corriere della Sera, 10 febbraio 2020
Compra casa. Manca un timbro. Sfrattato
Quello che ha in mano è solo un pezzo di carta inutile. Se non fosse privo «del timbro di deposito nonché dei numeri apposti dal cancelliere a seguito del deposito», come ha scritto il giudice, non l’avrebbero sfrattata dalla casa che 27 anni fa fu comprata all’asta in Tribunale di Milano e dalla quale a 48 anni con il figlio di 13 dovrà uscire il 4 marzo, se necessario trascinati dalla forza pubblica. Una storia kafkiana dove la fredda forma vale più della sostanza, in cui la giustizia ha provato a fare giustizia, senza riuscirci.
Tutto comincia il 21 aprile del 1993 quando la sezione fallimentare del Tribunale di Milano aggiudica per 139 milioni di lire a un signore di Rho (Milano) un bilocale a Legnano (Milano) messo all’asta dopo un fallimento. Nel 2004 l’acquirente muore lasciando la casa alla moglie e al figlio (oggi 53enne) i quali, tre anni dopo, si accorgono che risulta ancora intestata al fallito. Come scrive il 31 luglio del 2019 l’attuale presidente della sezione fallimentare di Milano, Alida Paluchowski, in un documento che ripercorre la vicenda, il decreto di trasferimento della proprietà non era mai stato emesso. «Avrebbe dovuto essere predisposto su iniziativa del curatore (fallimentare, ndr)», firmato dal giudice delegato e dal cancelliere e inviato agli uffici competenti per essere annotato sui registri immobiliari che attestano la proprietà.
A quel punto gli eredi chiedono al Tribunale che venga emesso un nuovo decreto, affidandosi alla difesa dello stesso avvocato che era stato curatore del fallimento e che, annota Paluchowski, richiedeva il decreto di trasferimento all’allora presidente della sezione Fallimentare il quale, «animato si ritiene dalla buona volontà di consentire la trascrizione e sanare l’anomalia», nonostante il fallimento fosse stato chiuso da anni, firma il 7 gennaio 2008 una «bozza» di decreto. Ne ha una copia il figlio erede dell’acquirente. Come ne ha una, dell’analogo decreto del ’93, degli assegni con i cui il padre pagò la casa per 126,6 milioni di lire e del verbale di aggiudicazione. Risulta anche che i 18,6 milioni di lire sborsati per il trasferimento sono rimasti giacenti nel fascicolo del fallimento in Tribunale fino al 2010. Poi sono stati incamerati da Equitalia. Il legale in questione ha rivendicato la totale correttezza del suo operato.
Quella che sembrava una storia a lieto fine, visto che tutto si è svolto di fronte alla magistratura, anni dopo si trasforma in un incubo dal quale i protagonisti/vittime non si sono ancora svegliati: anche il secondo decreto di trasferimento della proprietà non risulta emesso ufficialmente. Dopo la morte del fallito, infatti, i suoi eredi si sono resi conto che l’appartamento era sempre intestato al loro parente e hanno, loro sì correttamente, trasferito la proprietà a sé stessi. Tutto formalmente regolare. Non solo, dato che nella casa vivono la ex compagna del figlio dell’acquirente e il figlio della coppia, nel 2016 hanno fatto causa alla donna che il 21 giugno scorso è stata condannata dal Tribunale di Busto Arsizio (Varese) a lasciare l’immobile e a pagare 70 mila euro per affitti arretrati e sanzioni.
Nella causa, la signora ha fatto emergere l’assurdità della vicenda, ma alla fine il giudice non ha potuto fare altro che rilevare che i documenti presentati non avevano i timbri necessari a dimostrare che siano stati depositati e che la proprietà non è stata mai trasferita. «Proveremo la strada dell’usucapione e speriamo che si possa sospendere lo sfratto», dice l’avvocato Maria Teresa Minniti che lavora a una soluzione.