Il Messaggero, 9 febbraio 2020
Sul libro “The Bomb” del premio Pulitzer Fred Kaplan
È un premio Pulitzer, editorialista di Slate a entrare nella stanza dei bottoni americani in un libro dal ritmo serrato, scritto in uno stile colloquiale e vibrante. Dopo il successo di The Wizards of Armageddon, Fred Kaplan torna a raccontare i protagonisti della guerra nucleare, studiandone le decisioni, le fughe in avanti, le contromosse e i bluff che da Eisenhower a Kennedy, da Truman a Ronald Reagan, da Bush a Obama, ne hanno segnato la loro politica estera.
Naturalmente prende le mosse da Donald Trump, che sei mesi dopo l’elezione rilasciò, nell’agosto 2017, una dichiarazione inquietante: se i Nord Coreani e il regime di Kim Jong-un fossero andati avanti con i testi di missili nucleari che potevano colpire gli Stati Uniti, disse Trump, sarebbero andati incontro a «una pioggia di fuoco e fiamme come il mondo non aveva mai visto».
I CAMBIAMENTI
Settantadue anni prima, la stessa metafora figurava nel discorso bellicoso di Harry Truman sulla distruzione di Hiroshima provocata dalla prima atomica sganciata nell’agosto 1945 da un B52: «Una pioggia di rovine dall’aria, come non era mai stata vista in Terra». Per decenni, gli americani non si sono preoccupati della guerra nucleare, ed ecco che ora con Trump la questione torna di attualità. Sei mesi dopo la dichiarazione di Bedminster, infatti, Trump ha firmato il Nuclear Posture Review, annunciando la creazione di nuovi tipi di armi nucleari da integrare ai piani convenzionale.
È il motivo che ha spinto Kaplan a ricostruire come un insider indiscreto, alternando fonti inedite d’archivio e interviste di prima mano per sacrificare la bibliografia accademica, le scelte, le esitazioni e i repentini cambiamenti di rotta come quello di John F. Kennedy, quando capì che il presunto gap missilistico con i sovietici, paventato dagli esperti militari del Pentagono, non esisteva, riuscì nel giro di un anno a risolvere la crisi in Laos, a contenere la crisi di Berlino, e a superare la minaccia dei missili sovietici puntati sugli Usa a Cuba, grazie al ritiro sovietico, battendosi di persona, contro i falchi del comando militare, per l’accordo segreto con Nikita Krusciov sul ritiro dei missili americani dalla Turchia.
Oltre a seguire il doppio filo rosso della minaccia e della deterrenza dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine della Guerra fredda, Kaplan discetta sulle forze disponibili, sull’arsenale nucleare, espone la politica di autolimitazione e la progressiva riduzione delle testate missilistiche. Entra nella stanza dei bottoni.
IL VINCOLO
E seguendo una trama da spy story, mette in luce quella che è stata una costante della politica nucleare americana: l’ambivalenza di volere puntare su una minaccia totale, per imporsi sul nemico, sovietico prima, multipolare dopo, e l’esigenza di dover rispettare un limite e dover frenare l’azione per obbedire a un vincolo morale superiore evitando la distruzione dell’umanità.
In piena guerra fredda, quando gli Stati Uniti puntavano sui missili nucleari per difendere l’Europa e evitarne l’invasione da parte dell’Urss, si calcolò che il ricorso all’atomica avrebbe provocato un’ecatombe di circa 285 milioni di morti e questa prospettiva divenne il motore della nuova politica di deterrenza. Altro aneddoto: tra la fine della presidenza Reagan e l’inizio della presidenza di George H.W. Bush, due ufficiali civili del Pentagono scoprirono l’irrazionalità del piano di guerra nucleare, preparato nel quartier generale del Comando Strategico di Omaha in Nebraska.
«Abbiamo bisogno di 10 mila testate per colpire 10 mila bersagli». dichiarò un alto ufficiale del Comando Strategico davanti alla Commissione del Senato. In molti pensarono che fosse un Dottor Stranamore o che stesse scherzando. Adesso con Trump, il suo nuovo piano, e soprattutto il suo temperamento vulcanico, imprevedibile e incandescente, c’è poco da stare tranquilli.