Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2020
Il cervello non aiuta la sopravvivenza della nostra specie
Il cervello si rivelerà un vantaggio per la nostra specie? Non è detto. La vita media di una specie è di 5 milioni di anni; ne sopravvivessimo altri 4 milioni (il che rasenta l’incredibile, dopo solo un milione d’anni dal controllo del fuoco avendo già impattato geologicamente), il nostro cervello non avrebbe costituito un vantaggio particolare; sopravvivessimo di meno, avrebbe costituito addirittura uno svantaggio!
Questo è solo un esempio d’applicazione della logica o cultura botanica che dall’Università di Firenze viene sviluppando Stefano Mancuso, pioniere della neurobiologia vegetale, intellettuale tra i più innovativi e civicamente generosi.
I filosofi si sono sempre occupati di piante. Mossi però dalle loro filosofie, hanno dissolto la differenza botanica. Aristotele inserì le piante nella scala naturae, ma al gradino più basso. Kant escluse a priori «un Newton del filo d’erba». La Mettrie avanzò analogie vitalistiche, tradotte da Goethe in una morfologia alla ricerca alchemica della «pianta originaria» («questa non è un’esperienza, questa è un’idea» obiettò Schiller ad un suo disegno). Hegel lo corresse in una dialettica del regno vegetale corridoio fra il minerale e l’animale. E se proprio un boccio, un fiore e un frutto la simboleggiano, non vanno oltre tale funzione simbolica. Idem il Leopardi della «souffrance» vegetale in un giardino, allegoria del «patimento» dell’esistenza tutta. Ai nostri giorni, Emanuele Coccia fa «metafisica» sulle piante, prendendosela con «l’attaccamento morboso alla terra»; ma così, regnanti Bolsonaro e Trump, sembra solo rendere facile il gioco ai detrattori della speculazione filosofica.
Mancuso, per contro, considera la botanica iuxta propria principia. Procede per induzione. Ottenendone spunti filosofici originali e fecondi in quanto non autoreferenziali. La Carta dei diritti delle piante che ne deriva è un decalogo ecologico; un organon della logica dell’oikos (dello spazio di vita) o della tutela massima possibile dell’esistente.
L’architettura modulare e l’intelligenza distribuita dell’organizzazione vegetale, sono da contrapporre alle gerarchie centripete (da cui, nell’uomo, la burocrazia) del modello di vita animale, fatto di consumo e predazione (s’inserisca pure qui la «critica della rettitudine» di Adriana Cavarero). Che siamo «tutti legati in un’unica rete» lo insegnava Darwin; ce lo ripete Marina Abramovi? nel manifesto engagé«We Are All In The Same Boat»; ma va capito bene. Internet può aiutarci. Deve. Se le piante sono così straordinarie – noi animali ne siamo completamente dipendenti; tanto che, conclude lo storico Y. N. Harari, sono state loro ad addomesticarci! – e se internet ne condivide l’architettura, allora abbiamo già una «rivoluzione» a portata di mano. Siamo immersi nella rivoluzione: se solo internet, tra hub e social, non affogasse nel web! Proprio l’inventore della «ragnatela globale» – Tim Berners – si sta occupando oggi della sua re-decentralizzazione; per evitare che internet diventi il più grande equivoco di sempre.
Il botanico va dunque considerato un modello; qualcosa che fornisce più chance – anzitutto intellettuali – alla specie umana. In ciò, il rischio dell’ambientalismo è di coprire l’ecologia; di ridurla a mera soluzione di problematiche in corso. Il problema, insomma, è che ci si limita a parlare di problemi; quando non bisognerebbe scadere nel pragmatismo. L’importanza dell’avanguardia di Mancuso è, invece, che avrebbe la sua valenza anche in condizioni ambientali ottimali. Il problema con il mondo, per un sapiens, non essendo la sua «fine» o meno ma di non averlo capito. Non secondariamente, noi distruggiamo il mondo perché ignoranti del modello di vita botanico.
In attesa di un logos dell’oikos diffuso, decrescita inclusa, Mancuso – d’accordo con i movimenti Green Belt in Kenya, Chipko in Himalaya, Plant-for-the-Planet in Germania o con il Primo ministro etiope e Nobel per la pace Abiy Ahmed, tacendo dell’inapplicata legge italiana del 1992 «un albero per neonato» – propone concretissimi afforestamenti ad oltranza.
«Agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza» sentenziava Manzoni. È da vedere se dopo tale forzatura restino uomini. L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono era ben altro.