Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2020
A tavola con Ettore Prandini, presidente della Coldiretti
«La maggiore opportunità? Superare la distinzione fra l’agricoltura e l’agroalimentare e lavorare perché l’intera filiera sia integrata. Per noi contadini, i Barilla non sono dei nemici. Li cito perché l’altra settimana ero a Parma per parlare con Paolo Barilla di un bel progetto di prodotti fatti con latte italiano e nocciole italiane. Va abbandonata la retorica dell’agricoltura contro l’industria. E, allo stesso modo, noi contadini non siamo nemici delle grandi cooperative. La maggiore paura? La Brexit. Soprattutto se i cibi che imitano i nostri con l’italian sounding, tipo il parmesan che imita il parmigiano, entreranno da tutto il mondo prima in una Inghilterra che non riconoscerà più i regolamenti comunitari sulla denominazione di origine e poi, da lì, si propagheranno in Unione Europea. Con, in più, oltre al danno, anche la beffa, perché arriveranno a dazio zero sui camion in Francia, e da lì passeranno poi nel resto dell’Unione».
Ettore Prandini, 47 anni, è il presidente di Coldiretti. Non è un professionista della rappresentanza. L’attività sua e della sorella Giovanna si chiama Azienda Agricola Morenica. Ed è una azienda vera. Animali da latte e una cantina. Novecentosessanta capi e settanta vitellini di razza Frisona, centocinquanta quintali di latte al giorno e trecentomila bottiglie di vino all’anno, il 40% da export. Un fatturato aggregato di 5 milioni di euro. La sala da pranzo ha i soffitti altissimi. Una volta era la rimessa dell’azienda agricola originaria. Qui sotto stavano i trattori.
Siamo a Lonato del Garda, nella provincia di Brescia più dolce, il lago oggi si vede poco per la foschia, la temperatura semi-primaverile ti fa capire perché in tanti si innamorano di questa terra fatta di filari e di ulivi. La madre Adele prepara la tavola e porta una bottiglia di Chardonnay metodo classico Castel Guelfo, etichetta di famiglia Perla del Garda. Tutto ha il senso secolare delle case di campagna, anche se questa fattoria – nella parte della abitazione civile – è di costruzione recente. «La mia famiglia è di Leno, nella Bassa bresciana. Mio padre acquistò questa azienda agricola nel 1988. Il proprietario era un anziano imprenditore meccanico: le sue due figlie non volevano ereditarla. Cinquanta ettari, una stalla di una trentina di capi: una piccola cosa. Trent’anni fa un ettaro di terra valeva qui nel Garda 6 milioni di lire e, nella Bassa, 30 milioni di lire. Ora i valori si sono ribaltati: nella Bassa un ettaro si compra a 90mila euro, qui un ettaro messo a vite vale sui 350mila euro. La crescita del valore di queste colline e di questi campi è dovuta all’esplosione del nostro vino, al boom del turismo e alla costruzione di una nuova identità orgogliosa, con i giovani che vogliono continuare l’attività dei genitori. È la dimostrazione della bontà del concetto e della pratica della filiera. Quando ogni parte si armonizza con il tutto, i valori economici crescono e si allineano ai valori sociali e culturali. La filiera non è soltanto un concetto produttivo. La filiera è qualcosa di molto più esteso e ampio».
La signora Adele inizia a disporre sul tavolo prima di tutto verdura dell’orto: sedani, pomodori e peperoni. I peperoni, soprattutto, hanno un gusto eccezionale. Il silenzio fuori è assoluto. Passa una macchina ogni dieci minuti. Durante la settimana e nel tardo inverno qui i turisti del Nord Europa non ci sono. «Facciamo un pranzo leggero – dice Ettore – oggi, a parte la culaccia che è di Piacenza e l’ananas che arriva dal Costa Rica, mangerai tutta roba coltivata e allevata nella nostra azienda agricola».
Il piatto forte è il coniglio al forno. A parte viene portato un intingolo fatto con l’olio extravergine del lago di Garda. La portata principale è completata dalla polenta. Dalle vetrate altissime entrano tagli di luce. La madre di Ettore appartiene ad una famiglia di produttori e di commercianti di uova, polli e tacchini. Nei primi dieci anni, ha gestito lei questa attività, prima che nel 1998 Ettore – una laurea in Legge alla Sapienza di Roma – lasciasse la posizione da responsabile del personale di una azienda con 350 addetti (la sorella Giovanna, laurea in Bocconi, allieva del DES, il corso in Discipline Economiche e Sociali, si sarebbe unita sei anni dopo, lasciando una carriera da broker nelle assicurazioni).
Il padre di Ettore era Giovanni Prandini. Cinque fratelli (Pietro, Pino, Felice, Luigi e Mario) e due sorelle, Anna e Carmela. Tutti agricoltori, tranne Mario, che era un prete, e Carmela, che era una suora. Giovanni è stato l’unico ad avere studiato: maturità classica a Desenzano e laurea in economia all’Università Cattolica di Milano. Prima ha lavorato come impiegato in una azienda sanitaria locale e, poi, ha scelto la politica. Prandini è il Prandini della Democrazia Cristiana, origini “fanfaniane” e carriera “prandiniana”, nel senso che è stato un vero uomo di responsabilità e di potere della Prima Repubblica: ministro della Marina nei governi Goria e De Mita e, soprattutto, ministro dei Lavori pubblici nel sesto e nel settimo governo Andreotti. «Con tutta la famiglia ci trasferimmo a Roma quando io e mia sorella Giovanna avevamo 12 e 13 anni – dice Ettore – ricordo che una volta saltai tre giorni di scuola per andare, senza che lui lo sapesse, a seguire il congresso della DC. Qualunque cosa si pensi di quel periodo storico, la competenza e la preparazione erano condizioni necessarie per partecipare alla vita pubblica. Oggi non è più. E, questo, davvero è uno dei problemi principali del nostro Paese. Competenza e preparazione non volevano soltanto dire titoli di studio, ma anche informazione: mio padre ha educato me e Giovanna con l’idea che, ogni giorno, sia necessario leggere tre o quattro giornali diversi».
Ettore mi indica il piatto dei formaggi: «Assaggia questo pecorino sardo dolce. È un misto di latte di mucca e di pecora. Noi, il nostro latte, lo conferiamo tutto alla Gardalatte, una cooperativa di cui siamo anche soci, specializzata in grana padano e in provolone». Prandini sa come funziona l’economia italiana: l’agricoltura, declinata in un rapporto né simbiotico né subalterno ma paritario e sistematico con la trasformazione industriale, è una delle sue novità. E, anche in virtù del latte della vita pubblica che ha assimilato da piccolo in casa, sa come funziona il potere: «Nella Prima Repubblica, Coldiretti eleggeva fra i settanta e gli ottanta parlamentari democristiani. Adesso non è più così. La rappresentanza deve avere un rapporto corretto con la politica. Fornendo competenze e orientamenti, affinché la classe dirigente legislativa disponga degli strumenti per impostare e realizzare le policy più giuste ed efficaci. L’incompetenza è il male peggiore».
Ettore e la sorella Giovann stanno progettando due investimenti: per quest’anno un impianto di biogas da 2 milioni di euro in grado di rendere l’azienda agricola quasi autonoma dal punto di vista energetico e, per il 2022, una nuova sala mungitura da 1,2 milioni di euro, con una semirobotizzazione basata su un brevetto italiano e israeliano. «Le marginalità nell’agricoltura sono così basse – nota Prandini – che non si possono sbagliare gli investimenti. L’alternativa strategica agli investimenti che creano efficienza e produttività è la crescita dimensionale. Oltre un certo livello, diventa difficile generare valore. Per avere un allevamento ben funzionante e redditizio, e in cui l’animale stia bene perché è trattato bene, nel nostro caso non potremmo superare i 1.200 capi».
Il modello produttivo è quello di una realtà aperta al mondo, ma coesa e compatta al suo interno: tutto quanto viene usato qui è prodotto nel perimetro dell’azienda agricola, con l’eccezione del mangime. Questa impresa è l’esempio di un settore che, secondo l’Istat, esprime un valore aggiunto annuo di 32 miliardi di euro, superiore ai 31 miliardi della Francia e ai 26 miliardi della Spagna. Nel 2019, sempre secondo l’Istat, l’indicatore del reddito agricolo, che misura la produttività del lavoro, nell’Europa a 28 membri è aumentato del 2%, mentre da noi ha fatto registrare un calo del 2,6%, comunque più contenuto rispetto al -8,3% della Francia e al -9,6% della Spagna. «Di solito – riflette Prandini – ci si concentra sul problema della internazionalizzazione e della promozione. Ed è giusto. Ma bisogna anche fare una autocritica sulla organizzazione interna dell’agricoltura italiana. Pensiamo ai 15 consorzi agricoli. Ognuno è del tutto autonomo rispetto agli altri. Ma ha ancora un senso? Non sarebbe meglio mantenere le singole specificità, ma avere anche un unico manginificio e una unica centrale acquisti? Quanto risparmieremmo?».
La signora Adele porta in tavola la torta di San Biagio – alle noci – e i caffè. Ettore lo prende corretto con la grappa, io normale. L’agricoltura è, insieme, un pezzo di passato e una ipotesi di futuro per il nostro Paese. Anche se, l’Italia, resta un luogo magnifico, ma maledettamente complicato. «Pensa che, sul ciglio della strada a meno di un chilometro da qui, c’è un cartello che indica la casa vinicola. Un giorno un automobilista l’ha centrato danneggiandolo. Io e mia sorella Giovanna volevamo metterlo a posto. Ha una base da un metro e mezzo ed è alto tre metri. Rifarlo costava 2.500 euro. Da un anno e mezzo navighiamo in mezzo alle carte comunali. È considerata una costruzione civile. Dovremmo fare la pratica catastale e perfino l’antisismica. Per la modifica cifra di altri 4mila euro. Alla fine ci siamo stancati». E, mentre lo racconta, gli viene il sorriso rabbioso e divertito dei bresciani della Bassa, che hanno l’ironia del ferro anche quando si dedicano all’agricoltura, all’allevamento e al vino.