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 2020  febbraio 09 Domenica calendario

Chi è Patrick George Zaki

Patrick George Zaki non aveva paura di tornare a casa in vacanza: sebbene si occupi di politica sin dalla rivoluzione del 2011 (contro l’allora presidente Mubarak), non era mai stato arrestato. Minacciato sì, racconta un amico dei tempi di piazza Tahrir che invece ora di paura ne ha parecchia. Ma nessun faccia a faccia con la famigerata National Security, la sicurezza interna che secondo la Procura di Roma è la chiave del caso Regeni: «Ci siamo sentiti al telefono giovedì, prevedeva di restare al Cairo dieci giorni, abbiamo parlato della situazione tesa del Paese. Patrick però è un attivista noto, uno da 10 mila followers, non si nasconde, è impegnato da anni sui diritti Lgbt e ha sempre postato dure critiche al regime mettendoci la faccia».
L’accusa è pesantissima, ci spiega l’avvocato dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, l’Ong per cui Patrick ha lavorato a lungo: «C’è un ordine di arresto risalente al 26 settembre scorso in cui è citato l’uso dei social media per sovvertire lo Stato, l’istigazione alla protesta non autorizzata, la propaganda per gruppi terroristici e l’uso della violenza. È un pacchetto preconfezionato di cinque capi d’imputazione che non c’entra nulla con l’attivismo serio ma trasparente di Patrick e che c’entra molto invece con la repressione inaspritasi dopo le manifestazioni anti-regime di settembre, da allora sono state arrestate almeno 4 mila persone e nonostante molti siano stati rilasciati il messaggio martellante è "vi stiamo addosso" ». 
Cos’è successo tra il 26 agosto, quando Patrick George Zaki, brillante laureato in farmacia votato alla politica, ha preso tranquillamente l’aereo per venire a studiare antropologia a Bologna, e il 26 del mese successivo, quando le autorità egiziane, alle prese con le piazze aizzate dal misterioso imprenditore ex insider Mohamed Ali, l’hanno inserito a sua insaputa nella lista nera? 
«Quei trenta giorni sono il bandolo della matassa, quando il regime ha letteralmente flippato di fronte alla prima vera sollevazione popolare dopo anni di bavaglio» ragiona un altro amico, anche lui molto allarmato. Si conoscono da quando Patrick, un giovane egiziano copto originario di Mansura, dove vivono ancora i genitori e la sorella minore, si è trasferito nella capitale per studiare farmacia e si è appassionato alla politica: «Eravamo a Tahrir nel 2011, lui aveva 20 anni. Era in piazza anche l’anno dopo contro il governo dei Fratelli Musulmani e c’era nel 2013 contro il golpe popolare guidato dall’attuale presidente al Sisi. Voleva che Morsi fosse cacciato dal popolo e non dall’esercito. Quando la morsa si è stretta fino a soffocarci ha fatto campagna per Khaled Ali, l’avvocato degli attivisti che, unico coraggioso, ha sfidato al Sisi alle presidenziali. E a settembre scorso, come tutti noi, ha condiviso i video che mostravano le nuove proteste contro al Sisi». 
È uno dei tanti egiziani che non tacciono Patrick George Zaki. Uno di quelli che la stampa internazionale, nel pieno dell’eccitazione per le primavere arabe, definiva leader di un movimento invece senza leader e proprio per questo forse facilmente fagocitabile dalla contro-rivoluzione. Venerdì mattina è atterrato al Cairo senza paura e senza una parola la sicurezza l’ha portato via. 
«Per 12 ore non abbiamo saputo nulla di lui, gli hanno preso il telefonino e il pc e hanno cancellato i suoi profili social - continua l’avvocato con voce gentile, un coetaneo di Patrick -. Sabato mattina è riuscito a chiamarci e l’ho raggiunto al carcere di Mansura, 120 km a nord del Cairo, dove l’hanno portato basandosi sul suo indirizzo di residenza. L’ho visto, l’hanno torturato, è stato picchiato e sottoposto a scosse elettriche, hanno detto che resterà in detenzione 15 giorni ma le accuse sono pesanti, del genere che di solito inchiodano la gente in cella dai sei mesi ai due anni e poi la condannano a vivere nel terrore».
«Kulluna Giulio Regeni», siamo tutti Giulio Regeni: aveva scritto così Patrick George Zaki sul suo profilo Facebook nel 2016, sposando l’infelice causa del ricercatore friulano che pure non aveva mai incontrato. L’ha ripostato anche la settimana scorsa, in occasione del quarto anniversario dalla morte di Regeni. Ma non è per questo che è stato preso, concordano gli amici: «È che siamo davvero tutti Giulio Regeni, nel senso che quanto è capitato a lui lo conosciamo bene. Random, per fare più paura, possiamo finirci tutti e ci finiamo, anche se poi a noi, spezzati, lasciano tornare a casa».