Corriere della Sera, 9 febbraio 2020
Londra e le trappole del divorzio
Quando il Trattato di Maastricht, nel 1992, rilanciò il processo di integrazione europea, la Gran Bretagna firmò, ma ottenne il diritto di astenersi da qualsiasi progresso che non le fosse congeniale. Non ne fummo sorpresi. Benché invitato dai sei Paesi della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), il Regno Unito non aveva firmato i trattati di Roma del 1957 per la creazione di una Comunità Economica Europea e, con una mossa scismatica, aveva creato una associazione concorrente (Efta, European Free Trade Association) che comprendeva, nella sua fase iniziale, l’Austria, la Danimarca, il Portogallo, la Norvegia, la Svezia e la Svizzera. Ma di lì a pochi anni dovette constatare che mentre i Paesi della Cee stavano ricavando dalla loro associazione molti vantaggi, la crescita economica di quelli dell’Efta era modesta e deludente. Con molto realismo Londra abbandonò la barca dell’Efta e nel 1973 saltò a bordo di quella della Cee.
Fu una scelta strettamente economica, come furono economiche tutte le principali motivazioni della Gran Bretagna negli anni successivi. Londra era interessata al Mercato unico, dette un contributo prezioso alla sua creazione e fece persino qualche sacrificio, pur di restarvi. Ma ogniqualvolta i suoi partner decidevano di fare progressi verso l’integrazione, il Regno Unito invocava la clausola che le permetteva di starne fuori. Oggi, dopo la Brexit, l’Inghilterra è fuori. Ma ha ancora bisogno del Mercato unico ed è pronta a negoziare con la Commissione di Bruxelles per non perdere i vantaggi del libero scambio di merci e servizi in uno dei più ricchi e promettenti spazi economici del mondo.
Ma anche il libero scambio deve avere le sue regole. Perché le operazioni commerciali siano eque e la concorrenza sia leale, occorrono regolamenti tecnici, finanziari, amministrativi e sanitari accettati e osservati da tutti. E se scoppiano bisticci e divergenze occorrono un giudice e un tribunale. Grazie ai membri della Ue e alla Commissione di Bruxelles questi regolamenti esistono e la Corte di Giustizia europea è pronta a fare il suo lavoro. Ma nelle scorse settimane, dopo la vittoria elettorale di Boris Johnson e la formazione del suo governo, abbiamo appreso che la Gran Bretagna, secondo il nuovo premier, «non ha bisogno di allinearsi alle regole e agli standard Ue sulla concorrenza e sui sussidi, sulle tutele sociali, sull’ambiente, o su altro, così come la Ue non dovrebbe essere obbligata ad accettare le regole britanniche». In altre parole, per Londra il mercato deve essere unico, ma le regole, quando si applicano al Regno Unito, devono essere britanniche. Se accettassimo queste condizioni la Gran Bretagna, dopo essere uscita dall’Unione europea, vi rientrerebbe come un cavallo di Troia. Il negoziatore della Commissione, Michel Barnier, ne è consapevole e sembra essere deciso a evitare che questo accada.