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 2020  febbraio 09 Domenica calendario

Intervista a John Maxwell Coetzee

Nel 2003 John Maxwell Coetzee ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura per aver rappresentato «il sorprendente ruolo dell’outsider». Nella sua opera, formatasi in Sudafrica sotto la pressione dell’apartheid, lo scrittore si è da sempre interrogato sulla condizione umana,sfidando nel corso degli anni le categorie letterarie con romanzi che turbano l’idea di fiction, memoir che sembrano romanzi e allegorie che resistono alle facili interpretazioni. Lo sguardo dello scrittore è stato quello di un outsider, quasi l’obiettivo di una fotocamera che registra freddamente, mai esagerandola feroce realtà dell’interazione tra gli uomini.
Coetzee ha studiato all’Università di Cittàdel Capo, dove si è laureato in Letteree in Matematica, rispettivamente nel 1960 e nel 1961. Un intreccio di arte e scienza che, nel 1969, lo avrebbe portato al dottorato di ricerca in Letteratura inglese presso l’Università di Austin (Texas), per la sua analisi stilistica computerizzata dell’opera di Samuel Beckett. Dopodiché la letteratura è stata il suo unico métier.
Maprima ancora, da ragazzo, Coetzee aveva coltivato un’altra passione: la fotografia. Di questo aspetto della suaopera non sisapeva nientefino al 2014 quando a Città del Caposonovenutealla luceungran numero di fotografie. Il materiale fotografico, compreso un ingranditore, tutta l’attrezzatura da camera oscura,stampe e pellicola sviluppatada35mm, era stato mandatodaDorothy Driver, la compagnadiCoetzee,aHermann Wittenberg,un accademicoche aveva collaborato con lo scrittore alle suesceneggiature. Wittenberg, riconoscendoquel tesoro nascosto, hascansionato estampato le immaginichetreannidoposono divenuteoggetto diuna mostraa Cittàdel Capo.
Adessouna scelta di quelle foto, scattate nel 1955 e nel 1956, esce in formadi libro per la prima volta, in Prima di scrivere: Fotografie di un ragazzo(Contrasto). Le fotografie, tutte in biancoe nero, includono scene di famiglia, autoritratti, nature morte, foto di strada, e paesaggi. In molte ritroviamo la conferma visiva dibrani delsuo romanzo autobiografico, Boyhood (1997) ovvero Infanzia. Scene di vita di provincia edito in Italia da Einaudi, edalcune delleimmagini sono accompagnateda didascalie scritte per l’occasione dallo stesso Coetzee.
Ci sono le foto straordinarie della madre, osservata con ruvido affetto, e quelle dei suoi compagni di classe, deiprofessori e degli uomini che lavoravano nella fattoria di famiglia: tuttounmondosvanitoe magicamenteevocato.Anchese i temisono i piùvari, è evidente che questosedicenne stavacercandoun mododiguardare almondodalla prospettiva paziente e imparziale di un insider e insieme di un outsider.
Su quelle foto ho intervistato J.M. Coetzee.
Queste foto scattate da un sedicenne sono state riscoperte solo da qualche anno. Guardarle ha cambiato in qualche modo il tuo ricordo di quel periodo?
«Il mio ricordo degli anni Cinquanta è in gran parte frutto di quelle immagini e di altre simili. Nella mia esperienza, le immagini codificate nella nostra corteccia cerebrale — quelli che definiamo i "ricordi" — sono assai labili se paragonate a quelle fissate sulla carta».
Quando hai fatto quelle foto, quali erano i fotografi a cui guardavi? Chi era, se c’era qualcuno, che il sedicenne Coetzee avrebbe voluto emulare?
«A ripensarci, faccio fatica a distinguere i fotografi che ho visto a quindicio sedici anni quando andavoa scuola,da quelliche ho scoperto dopo, all’università, dove avevoaccesso aunabuona biblioteca. Ma credo dipoter dire con unacerta sicurezza che gliesempi cheavevo aitempi della scuola venivano soprattutto da Life , rivista allora molto diffusa in tutto il mondo».
In che modo in seguito ti sei interessato alla fotografia sudafricana? Penso in particolare a figure come David Goldblatt, Ernest Cole, e Santu Mofokeng, fotografi che hanno avuto atteggiamenti diversi sulla questione dell’attivismo e dell’apartheid.
Ritieni che qualcuno di loro abbia avuto un ruolo nel suggerirti una forma di impegno etico che non si riducesse a vuoti slogan politici?
«Dei tre fotografi che citi, David Goldblatt è stato l’unico con cui ho avutoun contatto diretto. David mi avevaproposto dicollaborare a un libro fotografico sulle chiese, gli edifici di culto, in Sudafrica. Lui avrebbefatto le foto e io avrei dovuto scriverebrani acommento.Maben prestosi è resoconto che quelloche volevodire sulle chiese non gli piaceva,e così abbiamo deciso di lasciar perdere».
Guardando le tue foto, soprattutto quelle che hai scattato con la Wega 35mm, noto la ricerca di una voce da parte di un giovane artista. Alla fine hai concluso di non avere "l’occhio di un fotografo artista". Non so se è vero, ma la scrittura è diventata un’arena molto più produttiva per te. Non pensi che alla fine il problema non fosse di "occhio" (un problema estetico) ma di penetrare la violenza pervasiva e intollerabile della società (un problema etico) — impresa che non ti riusciva con la fotografia, per quanto belle fossero le tue foto, e che invece ti è riuscita con la scrittura?
«La realtàè più semplice della tua interpretazione. Ho lasciato il Sudafrica a 21 anni e ho passato il decennio successivoin Gran Bretagna e negli Stati Uniti. In quel periodo non avevo la possibilità di usarelacamera oscura eperciònon hofattofoto perchéper me saper stampare era indispensabilese volevi essere fotografo. Quando sono tornatoin Sudafrica avevogià imboccato la carriera dello scrittore».
Ros e Freek erano due meticci che lavoravano nella fattoria di famiglia e che appaiono in tante delle tue foto. Hai idea di cosa ne sia stato di loro? Sei mai stato contattato da qualcuno dei loro parenti?
«Rosquando l’ho conosciutoeraun uomodi mezza età. Efaceva parte, per così dire, dell’impianto feudale della fattoria, mentre Freek, che quandol’ho conosciutodoveva avere una ventina d’anni, era stagionale e alla fine passò a un altro lavoro.Ros fu colpito dal glaucoma e morìcieco. Dopoessere andato via dalpaese nel 1961, ho perso ogni contatto con lui e con la sua famiglia».
Condivido con te la passione per la musica, e per Bach in particolare. Il ragazzo Coetzee che scattava quelle foto era già appassionato di musica? Che cosa ascoltava in quegli anni?
«Sì,anche da ragazzo ero rapitodalla musica.A Città delCapo c’erauna stazione radio di musica classica con unaprogrammazionepiuttosto audace. Hosentito Messiaen alla radio in un periodo in cui, fuori dalla Francia, era quasi sconosciuto. Poi prendevo in prestito LP dalla biblioteca comunale: Palestrina, Bach, Beethoven(soprattutto le sonate per piano), Bartok, Stravinsky. Allora mi sforzavo pure disuonare il piano, anchese non avevotalento enon eroportato perlo strumento».
Thomas Hardy ha cominciato come poeta e poi, dopo una lunga carriera di romanziere, è ritornato alla poesia. Pensi che potresti tornare a fotografare? Senti nei polpastrelli la smania dello scatto?
«No. Sulpiano estetico io non vedo a colori. Il mio cuore è rimasto al biancoenero, nel cinema comenella fotografia».
©2020 Teju Cole/Contrasto Traduzionedi Maria Baiocchi