la Repubblica, 9 febbraio 2020
Quel che resta della Moby Prince
Erano in una scatola, negli uffici della polizia marittima di Livorno, una cinquantina di oggetti recuperati dal rogo della Moby Prince di ventinove anni fa e rimasti sepolti tra gli scaffali. Qualche orologio, pezzi di quadranti: senza lancette, con le lancette, un cinturino. Un brandello di stoffa, poveri resti. Squassate montature di occhiali, una scatola di latta piena di ruggine, un orecchino malconcio, una spilla con la scritta strappata e ingiallita: «Moby è sempre». Persino una fotografia con la pellicola del colore un po’ staccata, ma con persone sorridenti (e al momento senza nome), al mare, su una barca, in un’estate imprecisata. «Parlano queste cose, vero?», Loris Rispoli è un pensionato di 63 anni che in quella tragica notte del 10 aprile 1991, perse, sul traghetto appena salpato da Livorno e diretto in Sardegna, la sorella Liana che «lavorava al duty free». Aveva 29 anni ed è una delle 140 vittime. A bordo ci fu un solo sopravvissuto alla collisione contro la petroliera Agip Abruzzo, il mozzo Alessio Bertrand.
Loris è a capo di una delle associazioni dei familiari delle vittime, ha partecipato a tutte le cerimonie, alle manifestazioni, ai cortei per chiedere verità e giustizia per quella tragedia rimasta ancora senza colpevoli: «Mi hanno telefonato dalla Polmare per chiedermi se volevo riprendere quegli oggetti, non sapevo della loro esistenza... E sì, è stato un colpo al cuore». Pausa. «Mi hanno detto che non erano mai stati sequestrati e che, quando vennero recuperati dal traghetto, non era stato possibile sapere a chi appartenessero». Confermano dalla polizia: «Erano qui, no non li avevamo dimenticati, semplicemente erano rimasti qui». Dentro una scatola. Un respiro e Loris riprende: «Sono andato a recuperarli, ho firmato il verbale, ho aperto il sacchetto e ho riconosciuto subito l’odore di bruciato. Proprio lo stesso odore di bruciato che c’era nel capannone Karen B quando mi hanno chiamato per riconoscere Liana». C’è il biglietto di un treno con la scritta Fs e altre parole che non si leggono più, la ricevuta di un albergo «Hotel de France», una fibbia di Armani. Targhette di qualche cabina, la numero 135 per esempio. Un pezzetto di metallo con scritto: Rocco. Una dentiera. Tante chiavi che avrebbero aperto case, auto, cantine, garage, alcune ancora con i portachiavi di plastica: intatti, appena slabbrati dal tempo che è passato. C’è una pinzetta da beauty case e molte altre solitudini silenziose che Loris ha disteso con cura sul tavolo di legno al circolo Arci che ospita l’associazione «Io sono 141», una delle associazioni dei familiari, quella che ha sede a Livorno. «Sono come una carezza per noi questi oggetti, appartenevano ai nostri cari, a tutti quelli che erano su quella nave e ci dicono tante cose, per esempio che il dolore non va in prescrizione, come il bisogno di giustizia». Riaffiorano brandelli di banconote da cinquantamila lire e sopra si intravede l’immagine del Bernini, lo scultore: «Quando ho aperto il sacchettino con i soldi, la carta si è tutta frantumata, è come svanita».
Rispoli dice che parlerà nei prossimi giorni con il sindaco di Livorno, Luca Salvetti: «Per il ventinovesimo anniversario della strage vorremmo lasciare in mostra questi reperti, poi li daremo al museo della memoria di Firenze» spiega e intanto li sfiora con le dita della mano. «Alcuni non sono bruciati, ma ci sono anche occhiali da sole ben conservati con tanto di lenti, a riprova di quello che sosteniamo da anni e cioè che non tutte le persone a bordo sono morte subito dopo la collisione, nel rogo, in alcune zone della nave i viaggiatori sono rimasti in vita per ore, come del resto ha stabilito la Commissione parlamentare di inchiesta. E se i soccorsi fossero stati veloci qualcuno si sarebbe salvato. Invece la nave è andata avanti a bruciare per due giorni». Alla polizia, dice lui, «sono stati gentilissimi, li ringrazio». Guarda una spilla: «C’è scritto “Moby è sempre” ed è proprio così, per noi la Moby è tutti i giorni, tutte le mattine, le ore che ci separano dalla verità». La procura ha un’inchiesta ancora aperta.