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 2020  febbraio 09 Domenica calendario

Biografia di Eric Abida

L’uomo che visse due volte si è messo contro due papi. Papi blaugrana, figure sacre del Barcellona: quello in carica, Leo Messi, e quello emerito, Xavi Hernandez. Leggende viventi. Lui, Eric Abidal, per un momento tanto breve quanto straordinario, è stato qualcosa di ancor più grande: la leggenda che non moriva, non più.
Prima di Sinisa Mihajlovic è stato lui a raccontare sul campo che è possibile sfidare qualunque avversario e l’ha fatto in mondovisione, alzando la più prestigiosa delle coppe per club, quella dei campioni. Era una notte di maggio del 2011. Fa impressione, nove anni dopo, rivederlo impigliato in baruffe di potere, pettegolezzi e ricatti. Verrebbe da dire che fa tristezza, ma triste sarebbe non fosse qui, disperso nello sciocchezzaio che è la vita quando non si ferma a guardarsi nello specchio. Eric Abidal è la parabola del sopravvissuto, rappresenta la difficoltà di gestire l’esistenza dopo che si è raggiunto il picco, niente dà più vertigini e non resta che scendere dove l’aria si fa impura.
In un film del 1993 dal titolo Fearless-Senza paura Jeff Bridges interpreta la parte di un superstite allo schianto di un aereo. Lo affligge una sindrome da stress post traumatico che lo fa ritenere invincibile e lo induce a sfidare continuamente la morte, correndo pericoli anche inutili, e la vita, mettendo a rischio i rapporti con le persone che lo amano. Alla fine, simbolicamente, mangia una fragola, frutto a cui era letalmente allergico, per vedere che cosa accadrà.
Lo schianto di Abidal avvenne n el febbraio del 2011. Giocava nella squadra più bella del mondo (il Barcellona di Guardiola) e nella nazionale francese. Durante un controllo gli fu diagnosticato un tumore al fegato. Al medico che pianificava l’operazione disse soltanto una parola: «Domani». Fu necessario un giorno in più. I tempi di recupero erano un’incognita. La squadra lo avrebbe aspettato, ma nessuno si aspettava di rivederlo dove apparve, indimenticabile, la notte del 28 maggio, dopo aver corso per 90 minuti, titolare ad honorem per volontà di un allenatore sensibile: nella tribuna dei premiati, con la fascia da capitano lasciatagli dal detentore, il catalano Puyol. Designando lui al centro di quell’immagine che entrava negli occhi di milioni di persone Guardiola e il Barcellona intero avevano scelto di mandare un messaggio a tutti quelli che vivevano, avevano o avrebbero vissuto la situazione di Abidal: è possibile non solo sopravvivere, ma rivivere come prima, più di prima.
Nel continuo pendolo tra il gioco e l’affare in quel momento il calcio si fermò su qualcosa che non è per natura: una lezione. Abidal, uno che l’aveva imparata. Tempo dopo, in estate, posò per un servizio fotografico. Provò una camicia bianca attillata che rifulgeva sulla pelle scura e cercò il consenso del fotografo. Antoine Doyen fece qualche scatto, poi timidamente disse: «Non è che potresti aprirla e far vedere... la cicatrice dell’intervento?». Abidal esitò, poi lo fece. Si guardarono, come amanti nuovi che decidono di andare in fondo. La camicia sparì, Abidal posò a torso nudo, raccontando che non si era mai chiesto: «Perché proprio a me?». L’avesse fatto si sarebbe dovuto chiedere allora perché proprio lui fu scelto dall’osservatore venuto per guardare un altro. «C’è un disegno – disse – e dobbiamo accettarlo».
Dopodiché, cominciò a scarabocchiarlo. Ebbe una ricaduta e fu necessario un trapianto di fegato. La vicenda divenne un giallo. Si disse che gli venne donato dal cugino Gerard, a cui il Camp Nou dedicò un’ovazione. Poi venne intercettata una telefonata dell’allora presidente del Barcellona, Rosell, a cui qualcuno diceva: «Quell’ingrato di Abidal, ora ci dà rogne, e noi che gli abbiamo comprato pure il fegato al mercato nero...». Decise di chiudere la carriera dove aveva cominciato: al Monaco. Allenava Ranieri che, onorato, gli diede la fascia di capitano, portata senza impegno né gloria. Doveva finire in bellezza, invece se ne andò in Grecia, all’Olympiakos, salvo cambiare idea e smettere dopo pochi mesi, come un Cassano qualsiasi. Si mise il vestito elegante che si era tolto per l’obiettivo di Doyen e diventò direttore sportivo. Ha creato una fondazione il cui motto è “Tutto inizia oggi”. È tornato a Barcellona, dove un posto, anzi una poltrona per lui era riservata da sempre e per sempre. Nella stagione più complicata ha fatto le scelte peggiori, rilasciato un’intervista in cui accusa i giocatori (Messi) di aver tramato, l’allenatore futuro (Xavi) di aver traccheggiato, ha incarnato una delle comuni figurine da talk sportivo che aizzano le usurate polemiche: o sono gli arbitri, o è il sistema o tocca allo spogliatoio. Variabili di un mondo che non cambia, ma aveva saputo elevarsi in quella notte di maggio del 2011. Non si poteva chiedere ad Abidal di tenerlo lassù, né di restarci lui. Sopravvivere è un attimo, continuare a vivere un’altra storia. Dalla tribuna stampa si può dare la pagella a un calciatore, non a un uomo. Mai a uno con la cicatrice. La cucitura tiene insieme due lembi di pelle, non due parti di vita. La seconda è una strada non condivisa: dietro ogni angolo c’è l’ombra di una possibile recrudescenza. Contro il veleno della precarietà, magari l’antidoto è proprio la banalità della vita di prima, sono le chiacchiere e i distintivi. E Abidal sta soltanto mangiando qualsiasi cosa, m a guarda la fragola.