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 2020  febbraio 08 Sabato calendario

Orsi & tori

«L’Italia ha bisogno di campioni». Ma non è per la Nazionale di calcio, bensì per l’economia. I campioni devono essere aziende e a sentenziarlo, con i dati, è l’Istat che ha diffuso le prime evidenze del censimento permanente delle imprese per il 2019. Il censimento è avvenuto su un campione di 280 mila imprese con tre o più addetti, che corrispondono al 24% delle imprese italiane, che producono però l’84% del valore aggiunto nazionale e impiegano il 76,7% degli addetti (in totale sono 12,7 milioni) e il 91,3% dei dipendenti, costituendo quindi un segmento fondamentale, come scrive l’Istat, del sistema produttivo italiano. Dato ancora più significativo, anche se è una conferma, i 2/3 delle imprese (821 mila, pari esattamente al 79% del totale) sono microimprese con 3-9 addetti in organico; il 18,2% sono aziende di piccole dimensioni (10-49 addetti), mentre le medie (50-240 addetti) e le grandi imprese (con 250 e più addetti) sono appena il 2,3% (24 mila unità, di cui solo 3 mila grandi).I campioni non sono tanti in qualsiasi campo, ma 3 mila su 280 mila sono davvero pochi, anche perché non è detto che chi ha la dimensione maggiore sia poi un campione. Un professore tedesco (Hermann Simon) ha codificato il concetto di campioni nascosti e il suo libro presentato in novembre in Cina è stato acquistato da milioni di lettori. Le aziende cinesi vogliono diventare campioni. Questa cultura in Italia è meno diffusa e, lo si sa da anni, il punto di forza della struttura del Paese sono le pmi. Fra le quali, per fortuna, i campioni nascosti non mancano.
Ma qual è il ritratto complessivo delle aziende italiane, visto che il campione di Istat è più che rappresentativo dell’universo?
Spicca il terziario, l’industria perde terreno. E questo non è positivo, perché la ricchezza vera nasce dalla produzione.
Tre imprese su quattro sono controllate da una persona o da una famiglia. E anche questo, pur non essendo una sorpresa, è altamente negativo: la controprova è la striminzita lista di società quotate in Borsa, una realtà che ha radici profonde nel dominio per decenni di Mediobanca, come unica banca d’affari, che si è dedicata solo ai grandi gruppi familiari. Le cause sono anche altre, naturalmente, come un forte ritardo della normativa della Borsa che ha fatto nascere la definizione di Parco buoi riferita ai piccoli investitori. Ma se chi governa non prenderà provvedimenti incentivanti, adeguando anche il sistema fiscale, per la quotazione di tante aziende che sono campioni nascosti, lo sviluppo del Paese resterà precario per mancanza di investimenti: basta pensare che fino alle regole imposte dalla Bce, le banche fornivano più del 95% del fabbisogno di capitali sotto forma di prestiti. E ora le regole (molte delle quali assurde) imposte dal Meccanismo unificato di sorveglianza, che all’interno della Bce ha piena autonomia, permettono sempre i finanziamenti alle imprese, specialmente se pmi.
La difesa della posizione di mercato è il primo obiettivo strategico delle imprese. E ciò non è negativo, anzi positivo, ma non basta. Occorre anche che dalla difesa si passi all’attacco.
Un’impresa su tre sperimenta cambiamenti di processo, di prodotto e di mercato, ma soprattutto al Nord. Non è che, nella positività, la conferma di come l’Italia sia divisa in due.
Investimenti: per quasi due terzi delle imprese, prima di tutto gli investimenti sono nella formazione. E ciò è positivo, ma non basta nell’era del digitale. In effetti le imprese, specialmente quelle industriali, cercano di sopperire alla carenza di istituti tecnici superiori. Ce ne sono solo 60 in Italia, con sei anni di durata degli studi. Negli altri principali Paesi europei sono come minimo tre volte rispetto all’Italia.
In ripresa le assunzioni a tempo indeterminato. È l’effetto del Jobs act che il movimento populista al governo ha cominciato ad abbattere. Nel triennio 2016-2018, l’acquisizione di risorse umane ha riguardato più della metà delle micro e il 77,3% delle piccole, con il coinvolgimento di pressoché tutte le aziende nelle classi dimensionali superiori. Segno di che cosa può voler dire in positivo l’incentivazione attraverso un periodo di tempo non limitato di agevolazioni nei contributi, unito all’abolizione dell’articolo 18, da non pochi definito famigerato.
Quasi a riprova, le principali cause delle non assunzioni sono l’alto costo del lavoro rispetto a quanto finisce nelle tasche dei lavoratori (vedremo quanto incideranno i provvedimenti appena varati sul cuneo fiscale) e l’incertezza sul futuro. Solo governi stabili e con un programma chiaramente indirizzato allo sviluppo possono dare fiducia alle imprese cancellando o riducendo l’incertezza sul futuro.
C’è un diffuso gioco di squadra: oltre la metà delle imprese lavora con altre aziende o istituzioni. È l’effetto dei distretti di settore e delle filiere. In questo l’Italia è avanti a molti altri Paesi, anche per causa di forza maggiore vista la minore dimensione della stragrande maggioranza delle aziende italiane. Meglio collegarsi che andare da soli.
Le imprese censite dall’Istat si considerano competitive e puntano sulla qualità, ma il loro mercato è per lo più locale. Bene che nel competere le aziende italiane facciano leva in primo luogo sulla qualità (non a caso il valore del marchio Made in Italy è crescente): oltre il 71% delle aziende con almeno 10 addetti vanta la qualità del prodotto e del servizio offerto. Nel Dna c’è il Rinascimento. Meno Marco Polo, visto che il 42% delle aziende con almeno 10 addetti (88% del campione) opera su un mercato locale, regionale al massimo.
La tendenza verso i mercati internazionali muta se si considerano le aziende del Nord Italia. Opera in dimensione locale tra il 60 e il 70% delle aziende con almeno 10 addetti della Sardegna e della Sicilia; nelle regioni del Nord (Friuli, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Piemonte) l’operatività internazionale è la regola in più del 40% delle aziende. La solita divisione del Paese in due.
È ancora scarso il feeling con le tecnologie digitali. Solo 100 mila imprese vendono on-line, per un fatturato di 44 miliardi. E per la maggior parte delle imprese c’è un numero limitato di tecnologie che vengono utilizzate. Soltanto per imprese con un numero decisamente superiore a 10 addetti si può parlare di uso strutturale delle tecnologie. La maggioranza delle imprese usa solo tre delle tecnologie che Istat ha sottoposto nel censimento. E a un certo punto di vita del governo precedente, con Luigi Di Maio ministro dello Sviluppo economico, si è corso il rischio di limitare la spinta verso industria 4.0.
Istat rileva che si sta riducendo l’esposizione bancaria e ne deduce che è in crescita l’autofinanziamento. Dovrebbe invece considerare che le aziende nella loro totalità hanno subito i limiti posti alle banche dal Meccanismo unificato di controllo della Bce e quindi la riduzione di debito ha prodotto sicuramente anche una riduzione di investimenti. Ma il peggio su questo terreno si deve ancora vedere. E lo si capisce bene da un altro dato che emerge dal censimento: nella scelta della banca vince il rapporto fiduciario. Vuol dire che le banche del territorio hanno una funzione fondamentale per il sistema delle pmi italiane, a dispetto di tutte le fusioni che Francoforte vorrebbe far fare, con la conseguente scomparsa di banche che hanno conoscenza diretta di specifici territori, dove lavorano persone che conoscono gli imprenditori e le imprese da sempre, perché non vengono trasferiti dal Nord al Sud dopo due o tre anni come succede inevitabilmente nella logica delle grandi banche (salvo Intesa Sanpaolo, che ha costruito una banca che si chiama appunto Banca dei territori). Banca d’Italia, pur non avendo un potere diretto dovrebbe farsi interprete di una realtà italiana diversa, con la struttura economica basata sulle pmi, e quindi impegnarsi a conservare il ruolo fondamentale delle banche locali.
I campioni italiani ci sono, sono fra centinaia di migliaia di pmi. E se è giusto che Istat rilevi la mancanza di campioni fra le aziende di dimensioni più grandi, sarebbe utile che l’Italia difendesse le proprie pmi da norme europee che vanno bene per colossi multinazionali. Per di più è la recente legislazione delle crisi aziendali che getta un’ombra funesta sulle pmi, in quanto ha previsto responsabilità folli degli amministratori delle stesse pmi, per lo più srl, e soprattutto ha previsto che le srl debbano farsi certificare con una sorta di rating. Per fortuna al momento questo obbligo è stato rinviato al 2021 ma il Parlamento deve valutare di fare un grande passo indietro perché spesso le pmi galleggiano ma producono e garantiscono posti di lavoro. Già oggi sono le banche a dover dare un rating alle pmi e spesso ciò gli impedisce di finanziarle, figuriamoci che cosa potrebbe succedere se i rating fossero due. Tutto il mondo delle professioni contabili, degli avvocati è in grande allarme per una norma che non tiene conto delle peculiarità delle piccole aziende e che potrebbe generare un’ecatombe, quando invece anche pmi che sembrano barcollare hanno dentro la vitalità di imprenditori con il coltello fra i denti, mai disponibili ad arrendersi.
Tutti i media di Class Editori sono pronti a collaborare con commercialisti, avvocati, revisori, per far capire al Parlamento che quella riforma deve essere riformata se non si vuole riempire l’Italia di morti e feriti aziendali. Il tema è stato affrontato anche durante il grande convegno organizzato da MF-Milano Finanza e Class Cnbc sull’Evoluzione della professione legale che ha goduto di una straordinaria analisi sulla globalizzazione e quindi su come il mondo è cambiato da parte del professor Giulio Tremonti. In esso c’è lo scenario nel quale inserire e valorizzare l’unicità del sistema delle pmi italiane.

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Con la sua riconosciuta intelligenza superiore, Tremonti ha fotografato così il mondo di oggi, ricordando che già molti anni fa con due amici giuristi del livello di Francesco Galgano e Sabino Cassese aveva scritto un libro dal titolo premonitore: Nazione senza ricchezza. Ricchezza senza Nazioni. «Si è spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza. Per secoli gli Stati hanno esercitato il monopolio della forza, controllando con essa il territorio; la ricchezza era sul territorio, agraria, industriale, mineraria, quindi gli Stati la controllavano. Gli Stati avevano il monopolio della forza e riscuotevano le imposte, gestivano la giustizia, avevano le leve militari, battevano moneta... Ora, anzi già allora, come scrissi in un parere per un intermediario finanziario, la raccolta avviene in un Paese, il capitale viene gestito a Londra, gli investimenti vengono fatti in tutto il mondo, il ritorno viene tassato dove è più conveniente». E ancora: «Nella repubblica internazionale del denaro non è più lo stato a scegliere come tassare la ricchezza, ma è questa che sceglie dove andare e quando essere tassata (ogni riferimento alla web tax è puramente casuale). Da qui il titolo felice del libro con Galgano e Cassese...».
Tremonti è giustamente orgoglioso di quegli scritti di anni fa che hanno anticipato l’oggi. Non c’era niente di cultura anglosassone comparabile per modernità a quelli scritti.
È per questo che l’Europa non funziona o funziona poco. Perché non ha saputo cogliere questo cambiamento, salvaguardando le peculiarità degli Stati membri. Una peculiarità fondamentale dell’Italia è di avere un tessuto fittissimo di pmi. È questo tessuto che di per sé è già un campione mondiale. Basta non distruggerlo. E per questo il ruolo degli avvocati è fondamentale. Così, su un filo sottile e acutissimo di ragionamento, Tremonti si è permesso di segnalare che la professione legale non può essere annullata dal fenomeno che le ex Big eight che poi sono diventate five e ora sono Big four, partendo dalla revisione, ora fanno tutto, hanno bisogno di sedi grattacielo, ma facendo tutto hanno inevitabilmente enormi conflitti di interesse. «Nella nostra antica e gloriosa Costituzione c’è l’esame di Stato per gli avvocati, come per altri professionisti e non credo che sia compatibile con l’esercizio capitalistico delle professioni». Un altro patrimonio, l’attività intellettuale dei professionisti, che equivale a un campione italiano.
Forse c’è un ponte, anzi c’è, fra i professionisti campioni, premiati nella serata del 5, che è seguita al grande convegno sull’evoluzione della professione legale, e il tessuto produttivo italiano delle pmi. Un grande libro darà presto conto delle eccellenze della professione legale, degli studi migliori, così come con Motore Italia questa casa editrice celebra e premia le migliori pmi, che sono appunto il motore dell’Italia.