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 2020  febbraio 08 Sabato calendario

Sul Giorno del Ricordo delle foibe

Tra un paio di giorni, il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il Giorno del Ricordo. È una solennità nazionale istituita con una legge del 2004 per conservare e rinnovare la memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo dai territori occupati nel 45 dalle truppe di Tito. La legge fu introdotta dopo vari tentativi andati a vuoto per l’opposizione di una parte della sinistra estrema. Poi finalmente la pietas e la verità ebbero il sopravvento, anche se qualche polemica filocomunista riemerge ancora: il fanatismo, e la stupidità, hanno una forza e una vitalità implacabili.
LE GROTTE CARSICHE
Le foibe sono delle cavità naturali della zona carsica, che scendono per centinaia di metri nelle viscere della terra. Qui, alla fine del conflitto, i partigiani di Tito fecero precipitare i corpi di migliaia di italiani. Con la motivazione di giustiziare dei criminali fascisti, questi assassini eliminarono indifferentemente uomini e donne nei modi più crudeli. Fu una epilogo sanguinario e brutale di una guerra sciagurata. Ma il fatto che fosse stata iniziata da noi, aggredendo quel paese pacifico, fu solo il pretesto per una serie di vendette personali e per una più generalizzata pulizia etnica, eliminando, con la morte o un esilio forzoso ogni presenza sgradita.
Tutto era cominciato nell’ottobre del 1940, quando Mussolini aveva invaso la Grecia per far dispetto a Hitler, che agiva sempre per conto suo senza consultare l’alleato. La spedizione si rivelò un fiasco colossale: i nostri soldati furono costretti a ripiegare in Albania e rischiarono di esser ricacciati in mare. Così, per soccorrere il maldestro socio italiano, Hitler invase la Jugoslavia, trasformando la naturale polveriera dei Balcani, dove si fronteggiavano popoli di etnie e religioni diverse, in un gigantesco incendio alimentato da odi ancestrali che generavano massacri e rappresaglie. I nazisti usarono le consuete brutalità con le deportazioni degli ebrei e le esecuzioni di massa.
Quanto ai nostri soldati, la maggior parte cercò di comportarsi secondo le esigenze del momento, combattendo una guerra in cui non credeva nessuno, e quindi limitandosi al minimo indispensabile. Ma in quell’ambiente di inaudita ferocia neanche gli italiani brava gente riuscirono a mantenersi tali. Vi furono episodi di vera e propria barbarie, non giustificata per una nazione civile, dagli agguati e dalle torture inflitte dai partigiani locali ai nostri prigionieri. Per di più l’appoggio che fornimmo agli Ustascia, il cui sadismo fu criticato persino dalle SS, contribuì all’equivoco di attribuire al nostro esercito una strategia distruttiva che gli era estranea, ma che nella tempesta della guerra si confondeva con quella degli altri occupanti e dei collaborazionisti più accesi. Ne risultò un odio etnico verso di noi, che oltrepassava anche quello politico. Vi fu un momento in cui ogni italiano fu identificato come bestia da abbattere.

LA PIANIFICAZIONE
All’odio etnico si aggiunse tuttavia la spietata pianificazione titina. Di questo dittatore noi ricordiamo l’attività durante la guerra fredda, quando, liberatosi dall’ipoteca sovietica, strizzò l’occhio all’Occidente per consolidare la propria autonomia e imprimere alla Jugoslavia un indirizzo prudentemente riformatore. Impresa peraltro fallita, come dimostrarono le spaventose stragi tra kossovari, serbi, montenegrini e croati che scoppiarono alla sua morte. Ma Tito, come tutti i gerarchi comunisti, era soprattutto un inflessibile esecutore del disegno leninista: eliminare, anche fisicamente, chiunque si opponesse al suo disegno egemonico. In questo fu rigorosamente imparziale, assassinando con scrupolosa efficienza non solo democratici, monarchici e preti, ma soprattutto dissidenti stalinisti, tra i quali un buon numero di nostri connazionali inavvedutamente riparatisi in quello che reputavano un paradiso internazionalista. È probabile che nelle foibe siano caduti anche alcuni di questi eretici.
Ma purtroppo il numero maggiore di sacrificati fu costituito da persone pacifiche, colpevoli soltanto di essere italiane. Il loro numero è imprecisato, anche perché molti cadaveri erano così irriconoscibili da esser misurati, dagli addetti ai recuperi, in metri cubi di materiale umano. Un orrore pari a quello delle Fosse Ardeatine e ai cumuli di Bergen Belsen. Anche le esecuzioni uguagliarono, e talvolta superarono, in brutalità quelle dei nazisti. Uomini e donne furono legati tra loro con il fil di ferro, e scaraventati in questi anfratti dove morirono per le fratture, la fame e la sete. Talvolta un vivo fu legato a un morto, per accrescere l’umiliazione del rito con l’abominio della putrefazione. Qualche aguzzino vi gettò sopra delle bombe a mano, non si sa se per ulteriore disprezzo o per un finale gesto di pietà. Migliaia di persone furono prelevate dall’Ozna, la spietata polizia segreta, e sparirono nel nulla. Alcune famiglie, soprattutto quelle più facoltose, riparate in Italia, furono avvicinate con richieste di riscatto per la liberazione dei loro cari. Pagarono, e non li rividero più.

LA STAMPA ROSSA
Ancor più disgustoso fu l’atteggiamento dei comunisti italiani, che in quel momento identificavano Tito con Stalin, Stalin con il partito e quest’ultimo con la fede marxista. Togliatti usò espressioni infami nei confronti delle vittime, e giustificò le stragi titine come una giusta retribuzione nei confronti dei fascisti invasori. La stampa rossa lo seguì a ruota, e per anni rifiutò di ammettere i crimini commessi dal loro compagno iugoslavo. Ancora oggi, purtroppo, qualche residuo nostalgico di quel’ideologia brutale si ostina in un negazionismo fanatico. Ed ogni volta che si parla di foibe, spunta sempre lo sciagurato che con il pretesto di contestualizzare e di ridimensionare si allinea, di fatto, sulle posizioni di quei macellai. La loro vergogna è pari a quella delle teste rasate per le quali le baracche di Auschwitz erano dei decorosi accomodamenti per lavoratori.

L’IMPARZIALITÀ
Torna invece ad onore di alcuni autorevoli ex esponenti di quel partito, a cominciare dal Presidente Napolitano, di aver patrocinato con vigore il ripristino della verità, e di aver impiegato le espressioni più appropriate per definire quei momenti così atroci. Il Presidente parlò di odio e di furia sanguinaria, e di un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica. Furono espressioni alte e nobili, quali raramente si ascoltano nel lessico soporifero e tortuoso del nostro politichese. Rileggendole con riverenza, possiamo solo sperare che il giorno del Ricordo, come quello della Memoria, si qualifichi progressivamente come momento non di rancore vendicativo ma di studio imparziale di uno dei momenti più dolorosi del nostro Paese, che un giorno potrà anche perdonare, ma non dovrà mai dimenticare.