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 2020  febbraio 08 Sabato calendario

Peste nera, la storia si ripete

La gente del passato aveva familiarità con la morte. Morire non era qualcosa che capita, salvo casi eccezionali, solo alla fine di una lunga, lunga vita, e talvolta così tardi da farsi desiderare. Era qualcosa che poteva capitare a qualunque età, da bambini, da ragazzi, appena sposati, appena diventati padri o madri: un’eventualità sempre dietro l’angolo, a cui certe epoche particolarmente sagge, come il tardo Medioevo, cercavano di prepararsi, studiando e insegnando l’arte di morire bene. Ma quando il ritmo dei decessi si impennava, quando i morti si moltiplicavano da un giorno all’altro, e morivano tutti con gli stessi sintomi, la gente sapeva che stava capitando qualcosa di diverso e di terribile. L’epidemia, il morbo, il contagio: per secoli si sono usate le stesse parole - quelle che sentiamo in questi giorni di coronavirus -, e non importava dire di più, anche perché di certe malattie non bisogna dire il nome. «Rapita da morbo crudele», si legge nei necrologi e nelle lapidi di tante giovani donne morte fra il 1918 e il 1919 di quella che chiamiamo la spagnola, solo perché nei Paesi in guerra la censura nascondeva le notizie, e invece nella Spagna neutrale i giornali dicevano la verità.
Quando l’epidemia dilaga, e si cerca di capire perché, le risposte possibili non sono poi molte. Si può pensare che gli dèi ci puniscono, e immaginare che Apollo, di lassù, stia scoccando le sue frecce verso la terra affollata di umanità spaventata, come racconta Omero nel primo libro dell’Iliade, quando descrive il morbo che spopola il campo degli Achei sotto le mura di Troia, e i roghi funebri che illuminano la notte, divorando i cadaveri di uomini e animali. Oppure si può pensare che è colpa di qualcuno, e prendersi, almeno, la soddisfazione di vendicarsi dei colpevoli. Meno una società è abituata a fronteggiare le epidemie, e più violenta e irrazionale sarà la caccia agli untori. 
Completamente impreparata, ad esempio, era la società medievale aggredita da quella che poi gli immaginifici storici anglosassoni avrebbero chiamato The Black Death, la peste nera. I nostri antenati del Medioevo erano vissuti per secoli senza conoscere niente di paragonabile alle epidemie che avevano spopolato il mondo europeo e mediterraneo a partire dalla peste antonina, che funestò il regno di Marco Aurelio e che era poi, probabilmente, il vaiolo. Certo capitava che un’estate di calura e di acque stagnanti vedesse aumentare le infezioni e moltiplicarsi i funerali, ma quando la gente, fra il 1347 e il 1348, cominciò a morire a mucchi e con una rapidità spaventosa, nessuno sapeva come reagire. Vollero sapere di chi era la colpa, e non ci misero molto a trovare i colpevoli.
Il primo non ci stupirà, naturalmente: gli ebrei, i malvagi assassini di Cristo che vivono tra di noi eppure ci odiano. Accusati di aver avvelenato i pozzi, gli ebrei vennero aggrediti e massacrati, benché la Chiesa si affannasse a ripetere che il contagio non era colpa loro. Il secondo colpevole contro cui si rivolse la furia popolare ci può stupire di più: i lebbrosi. Erano malati anche loro, d’una malattia orrenda che per di più all’epoca si credeva contagiosissima (e non lo è), e che costringeva a segregarli dalla collettività. Nello sforzo di lenire le sofferenze, il Medioevo aveva creato ovunque ovunque delle piccole comunità, dove i malati - li chiamavano proprio così, malade era sinonimo di lebbroso, e le loro case si chiamavano Maladerie - vivevano insieme, titolari di un piccolo patrimonio creato dai lasciti dei fedeli e che permetteva loro di mantenersi. Ma quando divampò la peste, in molti luoghi ci si convinse che i colpevoli erano loro, i malati, per odio verso i sani; e le maladerie vennero attaccate come venivano attaccati i quartieri dei giudei (e come verrebbero attaccate le nostre Chinatown se il virus, domani, dovesse cominciare a fare migliaia di morti nelle città dell’Occidente).
Ma il bilancio delle reazioni suscitate in passato dalla comparsa improvvisa della peste ha anche un’altra faccia. Nello stesso momento in cui le autorità ordinavano processioni e facevano voti per placare l’ira divina e la teppa dava la caccia agli untori, uomini pratici e muniti di pieni poteri segregavano malati, sbarravano case, chiudevano le porte delle città, istituivano quarantene per i viaggiatori. Non sapevano nulla di virus e batteri, ma avevano capito, perché bastava osservarlo, che il male si trasmetteva da una persona all’altra, con la vicinanza, col contatto, col respiro. 
Ci voleva una buona dose di ottimismo per imporre misure così drastiche, a cui tanta gente d’istinto si opponeva, e che creavano tanti danni all’economia, senza neanche essere in grado di spiegare perché erano utili, ma per fede nell’esperienza. Intere società non ci sono riuscite, per inefficienza, per scetticismo: nel mondo arabo e poi ottomano la peste ha continuato a spadroneggiare fino all’Ottocento, e Napoleone si è trovato a fronteggiarla a Giaffa, durante la campagna d’Egitto. Si discute ancora se abbia davvero dato ordine di ammazzare i prigionieri malati, per limitare la diffusione del contagio, e addirittura di praticare l’eutanasia sui suoi stessi soldati; quel che è certo è che si fece poi ritrarre da Gros mentre visitava gli appestati e li toccava, con lo stesso gesto con cui i re di Francia toccavano gli ammalati di scrofola.
E dunque la peste dilagava in Medio Oriente, come in Cina e in India, ancora nell’Ottocento. Ma in Europa, già cinquant’anni dopo la tragedia del 1348, la peste, senza essere domata, era imbrigliata, intralciata in tutti i modi, assediata da barriere, controlli, passaporti, certificati e bollette: una delle prime manifestazioni di quella poderosa forza della modernità che è la burocrazia. Oggi ci stupiamo che le autorità di mezzo mondo stiano prendendo così in fretta misure tanto drastiche, senza preoccuparsi dell’enorme danno all’economia, l’idolo a cui di solito siamo pronti a sacrificare la felicità e il benessere della gente. Possono sembrare misure meditate, prese da governi pensosi e consapevoli; in realtà è un automatismo che viene dal Medioevo. Lo storico Victor Hanson ha scritto che il modo occidentale di fare la guerra, rapido, brutale e spietato, è una delle cifre, da sempre, del trionfo dell’Occidente; e forse vi rientra anche il nostro modo di militarizzare la guerra alle malattie.