Ha visto, signor Bagnoli, che bel Verona?
«Io e mia moglie andiamo alla partita quando possiamo, la società è gentile e ci regala ancora due tessere di tribuna, il calcio è sempre la mia grande passione».
Erano anni che non si vedeva l’Hellas così.
«Di solito dicevano sperèmo de qua , sperèmo de là , e alla fine restava solo quello, la speranza. Adesso ci sono anche i risultati».
La Juve potrebbe soffrire, su quel campo, come ai suoi tempi?
«Lei è di un altro mondo, sempre. C’è il campionato della Juve e c’è quello degli altri».
Ronaldo le piace?
«A me piacciono tutti i grandi giocatori, ma le squadre di più».
Allora le garberà l’Atalanta.
«Molto, e penso che Gasperini un po’ mi somigli. Ha lavorato bene su un materiale ottimo ma non formidabile».
Anche Sarri?
«Beh, lui ha trovato la Juve, però è uno che viene dal basso, uno schietto e sincero. Uno un po’ com’ero io».
Il vostro scudetto dell’85 è stato l’ultimo della provincia. Quello della Sampdoria aveva comunque dietro Genova, Vialli, Mancini e il petroliere Mantovani. Il Verona fu un miracolo.
«Ci volevamo bene e ce ne vogliamo ancora: con i ragazzi ci vediamo ogni tanto, facciamo delle cene e delle gite, adesso veramente un po’ meno perché io non sono troppo in forma.
A volte viene Pierino Fanna e mi porta allo stadio».
La sua non era una squadra di marziani.
«Ci interessava sfruttare le motivazioni di giocatori che nei loro club si sentivano esclusi. Di Gennaro nella Fiorentina aveva davanti Antognoni, e Fanna nella Juve aveva Causio. Da noi erano liberi e indispensabili. E poi azzeccammo gli stranieri, Briegel ed Elkjaer.
Quelli erano i tempi dei giocatori uomini».
Il calcio le piace ancora?
«Quello in campo sì, l’altro non mi ha mai fatto impazzire».
Osvaldo Bagnoli dalla Bovisa, una periferia povera e popolare.
«Milano è la mia città, anche se l’amore e la fortuna li ho trovati a Verona, sposando Rosanna e lavorando meglio che potevo come allenatore. Milano manca al grande calcio, c’è bisogno che Inter e Milan tornino da scudetto».
E poi lei è stato anche operaio.
«I tempi dell’officina li ho poco presenti, però ci sono stati e sono stati importanti».
A un certo punto smise di allenare di colpo, senza esitazioni.
«Dopo le grandi soddisfazioni al Verona e al Genoa, chiusi all’Inter.
Non andò bene e mi accorsi che era venuto il momento: una sera tornai a casa e lo dissi a mia moglie, era inutile girarci intorno».
Cosa le piaceva di più di quella vita?
«Stare insieme ai ragazzi, trascorrere ogni giorno con i miei giocatori».
Com’è adesso la sua giornata?
«Molto semplice, da pensionato, ma è così da tanti anni ormai. Vado a fare la spesa con mia moglie, la mattina leggo i giornali, ma prima accompagno mia figlia al lavoro. Lei è non vedente dalla nascita. Alle quattro del pomeriggio la vado a riprendere e restiamo in casa tutti insieme, e se c’è una partita in tivù la guardo».
C’è qualcosa che le manca di più?
«Imparai a sciare tardi, verso i sessant’anni: mi piaceva tantissimo.
Poi però mi hanno messo la protesi al ginocchio. Ho anche smesso di giocare a pallone, ma fino a una decina di anni fa davo ancora quattro calci ogni tanto. E mi muovevo in bicicletta. Invecchiare non è una bella cosa».
Lo scudetto del Verona compie 35 anni, e anche quella famosa partita di Coppa dei Campioni contro la Juve a Torino, a porte chiuse. Se la ricorda?
«Mi dispiace, me ne parlano in tanti ma di quella giornata non ho più alcuna memoria».