Corriere della Sera, 8 febbraio 2020
Questo Parlamento va sciolto
Caro Direttore, presto, molto presto verrà il tempo per ascoltare una voce che, non isolata, viene dal profondo della nostra storia: «… il potere di scioglimento delle Camere [è] strumento indispensabile per adeguare la rappresentanza popolare ai reali mutamenti dell’opinione pubblica, al di fuori della durata normale delle legislature» (Aldo Moro, Assemblea costituente).
All’opposto, l’ipotesi che oggi prevale all’interno del «palazzo», in ordine al prossimo referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, è invece che, se anche il voto degli italiani fosse espresso per il «sì», e se questo fosse magari pure accompagnato dall’assordante silenzio di chi ormai tutto della politica disprezza, comunque non cambierebbe niente fino al 2023 e dunque fino alla scadenza naturale della legislatura, inclusa nel 2022 l’elezione di un presidente della Repubblica che, fino al 2029, sarebbe così garantito gradito alle «cancellerie«europee e ai «mercati finanziari».
È questa una ipotesi che ruota intorno a un cavillo, animata dall’unica forza in campo: la forza di gravità, la forza che oggi muove verso il basso il simulacro di questa democrazia «parlamentare». Il cavillo è nell’articolo 4 della legge sul referendum, per cui la riforma«decorre dal primo scioglimento successivo alla data di entrata in vigore». Sarebbe proprio questo articolo a garantire la durata della legislatura per altri 3 anni. No! Non è così.
Se è certo vero che un referendum da solo non può agire come killer di un Parlamento, è però anche vero che il citato articolo 4, neppure ne garantisce la durata per cinque anni. Non per caso nella legge è neutralmente usata la parola scioglimento(!), atto questo che ben può essere anticipato rispetto alla ordinaria scadenza quinquennale.
Camere da sciogliere
Un cambiamento strutturale di questa portata non può venire congelato
Il precedente costituzionale più prossimo e rilevante a questo proposito è in realtà quello del 1994, quando fu sciolto il Parlamento, presieduto alla Camera dal presidente Napolitano e al Senato dal presidente Spadolini, e per questa via fu portato alle dimissioni il governo Ciampi. E tutto ciò, da parte del presidente della Repubblica, fu così motivato: «…Lo scioglimento trova la sua principale motivazione, non già in una disfunzione creatasi nel rapporto Parlamento governo, bensì nel radicale cambiamento delle regole elettorali imposto dal referendum popolare del 18 aprile 1993, nonché nei profondi mutamenti emersi nel corpo elettorale e nelle stesse realtà politiche organizzate…” (così, Corriere della Sera, 18 gennaio 1994).
Oggi non pare che valga, contro questo precedente, il debole rilievo secondo cui il referendum del 1993 era diverso, perché allora il voto era sulla legge elettorale. Questo nuovo referendum è in realtà enormemente più forte, tanto nella sua natura, quanto nei suoi effetti: non già un referendum sulla legge per eleggere il Parlamento, ma addirittura, e ben più incisivamente, un referendum sul Parlamento in sé, sul corpo stesso del Parlamento. Un corpo che ne uscirà radicalmente mutato. E mutato – si noti – non solo nella sua composizione numerica, scendendo a soli 600 membri, ma anche nella sua funzione di rappresentanza territoriale e nella meccanica della sua efficienza decisionale. E altro: rapporti diversi tra maggioranza e opposizione e di riflesso tra le forze politiche, come saranno rappresentate in un Senato ridotto a 200 senatori. Un diverso peso delle Regioni. E tanto altro ancora. Compresa la trasformazione di quasi tutti gli attuali parlamentari in fantasmi vaganti nel «palazzo», privi di futuro e intenti solo a estrarre qualcosa e per sé dal presente.
Supporre che un cambiamento strutturale di questa portata, originato prima da una lunghissima e violenta campagna antipolitica (se i politici smettono di rubare, tutti possiamo andare in un «5 Stelle»), poi votato in forma quasi unanime dall’attuale Parlamento, infine oggetto via referendum del voto popolare, pensare che tutto questo possa per tre anni essere messo in freezer, ebbene tutto questo pare onestamente difficile da sostenere, tra l’altro da parte di forze politiche che finora sono state capaci di formulare a propria difesa solo argomenti suicidi. Suicida, per esempio, l’argomento usato contro la richiesta di indire elezioni politiche subito, prima ancora del referendum: così si eleggerebbe un Parlamento destinato a essere subito dopo delegittimato proprio dal referendum. Appunto! Oggi non si vede come e perché lo stesso effetto di delegittimazione via referendum non si manifesti tale e quale anche su questo Parlamento. Un Parlamento teatro di tipo iperparlamentare, con dentro maggioranze casuali, pittoresche, rotative. Leader per cui questo Parlamento è tutto e il resto niente. Così che risulta invertita la sequenza basica della democrazia: non prima un programma di governo e poi un governo per realizzarlo, ma al contrario prima un governo e poi la più o meno opportunistica, strumentale e quotidiana ricerca di «programmi» da declamare.
Ma ciò che è peggio è l’infima cifra della politica che viene così espressa: mai nella nostra storia così pochi hanno pesato e pesano tanto male sul presente e sul futuro di tutti gli altri. Né vale oggi l’argomento delle «cancellerie» forestiere, che esprimerebbero preferenza per il nostro sottomesso servilismo. Se qualche volta è stato così, oggi è piuttosto vero (e verificabile) il contrario: sul nuovo quadrante, economico e politico, interno ed esterno – europeo e internazionale – le nubi si addensano e sta di riflesso crescendo la domanda di governanti capaci di atti coraggiosi e non di parossistiche sequenze di photo opportunity. La «ricreazione» dovrebbe e potrebbe avere termine.