Sette, 7 febbraio 2020
Tutto sui vegani, tra moda e odio
Non mangia fichi, perché «spesso contengono le larve di una specie di vespa». Non indossa lana né seta, non prende il bus, se può, perché sui parabrezza si schiantano gli insetti; non tocca banconote, perché prodotte con componenti animali. Jordi Casamitjana è il “vegano etico” a cui il 3 gennaio il tribunale di Norwich, in Regno Unito, ha dato ragione con una sentenza miliare: il suo stile di vita ha i connotati e la flessibilità di un credo religioso, e come tale va tutelato sul lavoro. L’azienda che lo aveva licenziato - Casamitjana aveva scoperto che i fondi pensione erano investiti in aziende che fanno test su animali, e protestava - dovrà forse riassumerlo; e se voi, leggendo del suo stile di vita, lo avete trovato antipatico, sappiate che non siete i soli, e che il 70% dei suoi connazionali, secondo uno studio sulla “vegafobia”, considera i vegani «moralisti, bigotti, privi di umorismo». Un cantone svizzero nel 2017 ha negato la cittadinanza a un’attivista antispecista: le sue campagne le sono costate il voto contrario dei compaesani. E basta cercare “vegano” su un qualunque social — app di dating comprese, dove una delle diciture più frequenti nei profili, oltre a “no fumatrici”, pare sia “no vegane” — per imbattersi in gruppi faceti ma spesso aggressivi dai titoli come «Vegano stammi lontano» (155 mila seguaci).
I numeri sono triplicati
Oggi si dice vegano, in Italia, l’1,9% della popolazione (Eurispes): molti, se confrontati con lo 0,5% del decennio scorso. In tutta Europa perfino i fast food, da McDonald’s a Kfc, hanno dotato i propri menu di alternative vegane, ancorché non per forza più salutari. Per l’Onu dovremmo ridurre il consumo di carne del 90% se desideriamo rallentare la catastrofe climatica, e anche solo da un punto di vista di sostenibilità è impossibile fornire una dieta animale agli 8 miliardi di bocche che la popolazione mondiale presto raggiungerà. La dieta senza derivati animali, poi, fino a pochi anni fa evocava solo rinuncia: un personaggio dei Simpsons si definisce «vegano di quinto grado, cioè non mangio nulla che proietti un’ombra». Oggi, complice anche la fotogenia su Instagram di toast all’avocado e porridge, è molto cool: è vegana la stella dei Grammy Billie Eilish, lo sono atleti come Venus Williams e il rugbista Mirco Bergamasco, celebrity come Natalie Portman, Alicia Silverstone, Moby e naturalmente Greta Thunberg.
Essere vegani a gennaio
Veganuary, il “gennaio vegano” di moda da qualche anno nei paesi anglosassoni, ha raggiunto a gennaio 2020 un milione di menzioni su Instagram. Insomma, essere vegano non è mai stato così di moda, e così dalla parte del giusto. Ma anche così impopolare presso gli onnivori in genere. Perché? In Italia la trasmissione radio La Zanzara ha fatto del sarcasmo antiveg un leitmotiv: il conduttore Giuseppe Cruciani ha anche scritto un libro intitolato, eloquentemente, I fasciovegani (La Nave di Teseo, 2016). Le sue obiezioni sono quelle che si ritrovano in molte delle battute in tema. «Come capisci entro un minuto se una persona è vegana? In genere entro un minuto te l’ha già detto», è una delle freddure. Le stesse note di chi rintuzza “buonisti” e “idealisti”: «Si credono migliori», scrive Cruciani, che in passato ha cucinato e mangiato un coniglio in diretta ed è stato aggredito in redazione da animalisti. «Odiano la libertà». Già nel termine “vegano”— nato nel 1944 in inglese — c’è una nota etica: chi lo è per sole ragioni salutiste, «senza adottare l’intera filosofia di vita che rifiuta la sofferenza di altre specie, si dice vegetaliano», scrive Serena Ferraiolo, vegana da 10 anni, nel suo Piccolo libro vegano (Iacobelli, 2019), manuale-manifesto che unisce princìpi e ricette.
«Non voglio ammazzare per mangiare»
Spiega il filosofo Leonardo Caffo, vegano da 12 anni e autore di Vegan (Einaudi, 2019): «Io fumo e bevo: non sono mica vegano per salute. Ma perché non voglio ammazzare per mangiare. Il mio intestino, il mio istinto mi danno dei comandi: mangiare, accoppiarmi, farmi largo con la violenza. Essere vegano significa dominare questi istinti, se creano sofferenza ad altri viventi». Radicale è anche la critica al capitalismo: «Non causare sofferenza», spiega Caffo, «è anche non contribuire a un sistema di produzione. Se una multinazionale fa bevande veg, non le bevo». Nel Piccolo libro vegano di Ferraiolo, alla voce “ingredienti”, c’è una nota su avocado, anacardi e quinoa: «Mi fanno impazzire», scrive lei, «ma in America Latina, da dove li importiamo, sono spesso prodotti da manodopera sfruttata». Vale anche per i vestiti: niente lana, seta né cuoio. «Ma sto attenta anche alla moda low-cost, prodotta da lavoratori poco tutelati e in fibre sintetiche che guastano l’ambiente».
L’utopia dei fruitlandiani
Non per caso il veganismo è stato un punto fisso di utopie anticapitaliste e non violente (oltre che di movimenti religiosi). A metà Ottocento, a Harvard, nacque Fruitland, comunità che voleva essere un “nuovo Eden” e vivere di sola frutta e grani. Aveva tredici abitanti; durò sette mesi e poi, malnutriti e derisi da tutti, i Fruitlandiani si sciolsero. Il fondatore era il filosofo Amos Bronson Alcott: sua figlia, Louisa May, qualche anno dopo scriverà Piccole Donne, e non è un caso se oggi questo libro è considerato un manifesto germinale del femminismo. Ideologica, identitaria, è da sempre anche la matrice del sentimento antivegano. Per dipingere una classe di nobili elitari e superbi, nel suo poemetto Il giorno (1763) Giuseppe Parini li fa vegetariani e ottusamente animalisti: quando un servo dà un calcio alla “vergine cuccia”, cioè alla cagnolina di uno di loro, che lo aveva morso, viene licenziato. Vicini ai princìpi, lontani dalle persone. E in effetti «un pollo per ogni pentola» era, all’inizio del Seicento, la promessa (che oggi diremmo populista?) del “re buono” Enrico IV: non riuscì a sfamare così i francesi, ma ogni “miracolo economico”, compreso quello attraversato nel Dopoguerra dai nonni dei millennial vegani odierni, si è raccontato anche con la soddisfazione di poter mangiare la carne tutti i giorni. Nel 1953 il goliardico “partito della bistecca” di Corrado Tedeschi si presentò davvero alle elezioni promettendo «450 grammi di carne al giorno a tutti gli italiani». Prese qualche voto e consacrò un simbolo di benessere.
La canzonetta storpiata dagli animalisti
Così si offendono, oggi, in Germania, sia gli anziani sia i conservatori, quando in un programma simile allo Zecchino d’oro — è successo sotto Natale — una popolare canzoncina è rivisitata in chiave ambientalista. Fa: «mia nonna è un’inquinatrice zozzona/ mangia una bistecca al giorno perché la carne costa poco». Ha scatenato editoriali sulla «difesa dei nostri anziani» e persino cortei neonazi. E non è neppure un caso se sui social di Matteo Salvini, fra le frequenti istantanee della sua dieta “sovranista”, compaiono frecciatine ai vegani: «Si arrabbieranno», scriveva da Campli (Teramo) con un panino in mano, «ma a me la porchetta piace». In Russia i collettivi che costruiscono dal basso l’opposizione al presidente-cacciatore Vladimir Putin si riuniscono in caffè vegani come Horizontal, gestito in modo anarchico a San Pietroburgo. «Ma non mi pare che siamo una comunità», racconta Ferraiolo. «Online, forse. Ma nella vita reale io conosco forse tre vegani. E se online il clima polemico è spesso aspro, offline io non vengo mai attaccata».
Insulti online per un video sul ragù
Nelle comunità online «c’è una frangia di militanti che mi insultano se posto un video sul ragù», racconta il divulgatore Dario Bressanini, che alla scienza degli alimenti dedica video e libri. Il più recente è La chimica delle verdure (Gribaudo, 2019): «Oggi la verdura non è più considerata solo un contorno, ma un pilastro culinario. Ma sento una discriminazione: il mio La chimica della carne ha avuto una risonanza minore. Parlare di carne è impopolare». In un forum dedicato ai fumetti leggiamo che una notissima multinazionale di animazione ha da poco vietato ai suoi disegnatori di inserire nelle storie, oltre a sigarette e alcolici, anche polli e bistecche. La morale Insomma, la “rivoluzione vegana” ha i connotati di un movimento morale. Tra i periti di parte del processo al “vegano etico” di Norwich non c’era infatti un sindacalista, ma un professore di Filosofia Morale. Jeff McMahan, dell’Università di Oxford. Il suo parere? «Ancorché non obbligatorio, il veganismo è per la comunità accademica “moralmente migliore” dell’onnivorismo o del vegetarianismo». E quando mai essere “moralmente migliori” ha reso qualcuno più simpatico?