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 2020  febbraio 06 Giovedì calendario

Un libro su Archimede, il genio venuto dal futuro

C’è sempre una sproporzione, nella fama postuma di un artista o di un pensatore, tra gli aneddoti che si affermano nell’immaginario collettivo e la conoscenza specifica che ne hanno gli studiosi. Ma il caso di Archimede non ha forse eguali. Il più grande scienziato dell’antichità, uno dei maggiori della storia, è ridotto per lo più a tre immagini, parimenti caricaturali: il visionario che cerca un punto d’appoggio per sollevare il mondo, l’eccentrico che intuisce il principio del galleggiamento nella vasca da bagno e corre nudo in preda all’euforia («ho trovato, ho trovato!», eureka, eureka!), l’inventore che brucia le navi dei Romani coi raggi del sole riflessi nello specchio. 
Tutto falso, a rigore, ma anche tutto vero: come sempre avviene nelle leggende che amplificano e fraintendono dati in origine reali. E tuttavia sul caso di Archimede pesa una doppia aggravante: perché le opere di questo scienziato antico sono marginalizzate sia dagli antichisti (che quasi mai si occupano di scienza) sia dagli scienziati (che quasi mai si occupano di antichità, perché giudicano la scienza cosa moderna).
A consentire il dialogo tra queste discipline, e a fornire una presentazione di straordinaria forza comunicativa delle scoperte di Archimede, è ora un libro di Lucio Russo (Archimede. Un grande scienziato antico, Carocci, pp. 183, € 18), lo studioso che negli ultimi trent’anni ha rivoluzionato il modo di guardare alla scienza ellenistica, indagandola da scienziato, ma con mirabile controllo degli strumenti filologici. Tuttavia questo libro fa un passo oltre: non si limita a esporre i risultati di Archimede; li dimostra senza rinunciare ai tecnicismi che una reale comprensione richiede. È un libro per lettori «disponibili a impegnarsi», che abbiano il gusto del sapere storico, ma non arretrino dinanzi alle formule matematiche, giudicandole inattingibili alla cultura umanistica, o pregiudizialmente estranee a una civiltà del passato.
Trascegliamo allora due esempi, tratti dai suoi studi di idrostatica. Il principio di gravità, per cui tutti i corpi pesanti sono attratti verso un centro, unito al principio che noi chiamiamo «dei vasi comunicanti», serve ad Archimede per dimostrare che la massa d’acqua degli oceani deve avere forma sferica, e che quindi sferica è la Terra stessa. Siamo, ricordiamo, nel III secolo avanti Cristo, anche se un pregiudizio ancora oggi dominante vuole che la sfericità della Terra sia scoperta moderna. Falso: che fosse tonda si sapeva già all’epoca di Parmenide, ed Eratostene, altro straordinario scienziato ellenistico, aveva saputo persino misurarne la circonferenza. Bisognava però spiegare – e Archimede vi riesce – perché sia sferica.
Ma questo problema, da un punto di vista teorico, è elementare rispetto alle indagini sulla stabilità dell’equilibrio, ossia sul paraboloide di rotazione, che Archimede compie anche nell’ambito dell’ottica (nascono di qui gli aneddoti sugli specchi ustori a uso militare), e che avevano tra gli altri obiettivi quello di determinare, per immediati scopi di ingegneria navale, l’equilibrio in acqua di un galleggiante. La grande conquista è intanto la costruzione di un modello teorico, che sostituisca allo scafo vero e proprio un solido con la forma di segmento retto di paraboloide. Archimede sa che se il solido si inclina (per l’azione dei venti o delle onde) sarà soggetto a due forze: quella di gravità lo spingerà verso il basso, quella idrostatica verso l’alto. L’obiettivo è dunque di calcolare entro che termini l’azione congiunta di queste due forze aumenti l’inclinazione dello scafo, causandone il collasso, o al contrario lo raddrizzi.
Problema solo teorico? Assenza di applicazioni operative? La città di Siracusa, sotto la supervisione di Archimede, riuscì a costruire una nave quaranta volte più grande di quanto si potesse fino a quel momento. La sua portata si aggirava attorno alle 2.000 tonnellate (solo nel XIX secolo se ne costruiranno di maggiori) ed era lunga 110 metri. Giova ricordare, con Russo, che la «Santa Maria» di Cristoforo Colombo era lunga 26 metri, mentre l’ammiraglia inglese nella battaglia di Trafalgar del 1805, la «Victory», non raggiungeva i 70 metri.
L’orologio del progresso, dopo l’ellenismo, si arrestò. Le sue lancette, diciamo anzi, cominciarono a retrocedere. Le opere di Archimede rimasero per secoli incomprensibili a lettori impreparati a intenderle, e per questo si sono salvate in un unico esemplare: Archimede, tra quei fogli, impiega metodi infinitesimali, prepara – quanti lo sanno? – il concetto di integrale, dà inizio a quella che diventerà la geometria differenziale.
Un genio? Sia pure, a patto però che la genialità di Archimede non divenga un paravento per offuscare l’immagine dell’epoca sua, che fu tutta quanta più scientifica di molte epoche posteriori, anche se ai moderni ripugna ammetterlo. E del resto gli aneddoti sulla sua stravaganza sono un sintomo di questa desiderata cecità: perché un genio può nascere sempre, una cultura scientifica necessita di condizioni storiche.
Il che ci riporta, fatalmente, alla scuola. Di riforme scolastiche si parla ciclicamente, ma sempre ruotando attorno alla contrapposizione tra materie umanistiche (soprattutto classiche) e scientifiche: che cosa vogliamo per i nostri studenti – s’è chiesto taluno con desolante frivolezza – «i mitocondri o l’aoristo passivo?». Il caso di Archimede, e di altri con lui, dimostra quanto sia fallace considerare alternative scienza e cultura classica.
La verità è un’altra, ed è amara: gli studenti che escono oggi dalla scuola, qualsiasi corso di studio frequentino, ignorano conoscenze che nel III secolo avanti Cristo erano già acquisite. Chi voglia gettare un allarme, getti questo.