Corriere della Sera, 6 febbraio 2020
Quanto tempo ci vorrà per una cura contro il coronavirus?
«È comprensibile che in assenza di altro i ricercatori cerchino di provare tutte le terapie possibili. Ma anche se queste si rivelassero efficaci passerebbero anni prima di poterle utilizzare sull’uomo. E magari quando i farmaci saranno pronti l’epidemia si sarà già spenta come è successo per le due sindromi respiratorie simili a quella da nuovo coronavirus, Sars (tra 2002 e 2003) e Mers (2012, nella penisola arabica)».
Giorgio Palù, dell’Università di Padova, virologo di fama internazionale tra l’altro membro esperto dell’agenzia europea ECDC per il controllo delle malattie infettive, non crede che da qui a breve possa arrivare una cura contro l’agente infettivo «partito» dalla città di Wuhan. È illusorio, a suo parere, l’annuncio dell’università cinese di Zhejiang sull’esito positivo dei test in vitro, cioè in laboratorio, con due sostanze già impiegate contro altri virus respiratori della stessa famiglia.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha subito ridimensionato l’annuncio dichiarando che non ci sono terapie efficaci conosciute contro il 2019-nCoV. Che ne pensa?
«Concordo ovviamente con l’Oms. I test dei ricercatori cinesi riguardano due farmaci chiamati Arbidol e Darumavir. Il primo è stato prodotto da russi e cinesi come antivirale per l’influenza, in Occidente non è mai arrivato e non ne è stata descritta l’attività nelle riviste scientifiche. Il secondo, il Darumavir, potrebbe essere più interessante perché già in uso nella pratica clinica contro l’Hiv, il virus dell’Aids. Ha un meccanismo d’azione che potrebbe essere d’aiuto anche contro il nuovo coronavirus, sebbene è differente la modalità con la quale i due microrganismi penetrano nella cellula».
Un annuncio affrettato?
«I dati definiti incoraggianti riguardano test di laboratorio, dunque parlare di cura è molto, molto prematuro. Mancano i risultati delle fasi di sperimentazione successive a quella in vitro, prima sugli animali e poi sull’uomo, che richiedono anni anche pensando di accelerare i tempi come è successo per terapie che si sono rivelate precocemente molto promettenti. È la dimostrazione che quando mancano armi si prova con quelle a disposizione per altre malattie. Queste iniziative non vanno biasimate però dobbiamo restare con i piedi per terra. Lo stesso vale per i vaccini».
La mortalità
Le epidemie di Sars
e Mers avevano letalità più alte: 10% e 30%.
Il nuovo virus è al 2%
Cosa ci dicono le precedenti esperienze con Sars e Mers?
«Le due epidemie hanno avuto una letalità molto più alta, del 10% e del 30% rispettivamente, di quella legata al nuovo coronavirus che è del 2% circa. Siamo di fronte a un virus che uccide meno però si diffonde di più anche con sintomi lievi. Sembra dunque più difficile da contenere. Dobbiamo comprendere ancora molti aspetti della sua evoluzione. Solo più avanti si capirà se le misure di contenimento adottate dai cinesi e la strategia di quarantena e isolamento di massa hanno funzionato».
Non è stata individuata l’origine di questo virus, passato all’uomo dal mondo animale con un salto di specie. Che ipotesi si possono avanzare?
«L’ospite di partenza dovrebbe essere il pipistrello come lo è stato per Sars e Mers. A differenza di queste due epidemie, i cui serbatoi sono stati rispettivamente zibetto e dromedario, però non conosciamo l’ospite intermedio. Individuarlo significherebbe intervenire all’origine dell’infezione e dunque mettere in campo una ulteriore misura di contenimento».