la Repubblica, 6 febbraio 2020
Come lavorano i cacciatori di virus
Bisogna vestirsi bene, per incontrare la Sars. E la giornata di lavoro di Elisa Vicenzi e Silvia Ghezzi, al San Raffaele di Milano, inizia proprio con un quarto d’ora per mettere a punto la mise. «Tutina sotto, tuta sopra, calzari, guanti, sovraguanti, protezione facciale filtrante, maschera per gli occhi, cuffia», elenca Ghezzi, responsabile per la sicurezza della sezione patogeni virali, prima di scomparire nel laboratorio dove abita il coronavirus della Sars, che fra 2002 e 2003 ha causato 8 mila infezioni e 800 morti per polmonite.
«Lo abbiamo isolato nel marzo del 2003 da un paziente ricoverato all’ospedale Sacco. Era appena rientrato dalla Cina, stava molto male. La sua saliva era piena di virus», ricorda Elisa Vicenzi, direttrice dell’unità di ricerca patogeni virali, parte del team di “cacciatori” capaci di “mettere nel sacco” il microrganismo che allora terrorizzava il mondo. Oggi il loro laboratorio, al termine di un labirinto di corridoi sotterranei dove non rischi di finire per caso, in cui è vietato entrare senza un compagno accanto, è fra i pochi a conservare un campione di Sars in provetta, sigillato in una serie di involucri dentro a un freezer a meno 80 gradi, accessibile solo con le chiavi. «Da allora è sempre rimasto lì. Ma ora vorremmo tirarlo fuori per portare avanti gli studi sui farmaci. La nuova epidemia dimostra quanto sia urgente. Abbiamo già avviato le richieste di autorizzazione. Ovviamente non possiamo prendere iniziativa da soli».
Il laboratorio che conserva, oltre alla Sars, anche i virus Zika e Hiv è classificato con un livello di biosicurezza 3. Il massimo, 4, è riservato a patogeni ancora più contagiosi come Ebola.Scendendo di un gradino, in un laboratorio di livello 2, si incontra Anna Kajaste-Rudnitski, 39 anni, origini finlandesi, direttrice di uno dei gruppi di ricerca che qui all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (Sr-Tiget) smonta e rimonta i virus come fossero mattoni di Lego. «Loro sono magici», esclama. A questi microrganismi, in uno dei rami più complessi e avanzati della medicina di oggi, chiediamo di entrare all’interno delle cellule umane e, una volta lì dentro, correggere il difetto del Dna che sta alla base di alcune malattie. «Il nostro lavoro non parte dai virus, ma da frammenti del loro genoma. Noi li utilizziamo per creare i vari componenti del microrganismo. Poi li assembliamo e otteniamo il vettore virale. Sarà lui a entrare nella cellula e riparare il Dna difettoso. Ma senza replicarsi e uscire dalla cellula per poi diffondersi». La sua è una vita a metà. Esaurita la riparazione, i “mattoncini” del vettore virale diventano pezzi di scarto.
Di una “vita a metà” si parla non solo per i virus “montati” in laboratorio, ma anche per quelli in natura. “Entità biologiche” li definiscono i dizionari. Abituati a “viaggiare leggeri”, prendono in prestito il necessario per vivere e replicarsi dalle cellule che infettano. E se sulla Terra siano nati prima loro o i batteri, che furono i primi a ospitarli, è questione futile come chiedersi se venga prima l’uovo o la gallina.
«Sono comunque la cosa più fenomenale che l’evoluzione abbia creato», secondo Luca Guidotti, vicedirettore scientifico e docente di patologia generale al San Raffaele, che ha scelto come “virus della sua vita” quello dell’epatite B. «Uno dei più intelligenti che esistano. Non miope come Ebola, che uccide in fretta i suoi ospiti. Lui si annida nel fegato, senza dare sintomi per decenni. Risale a ben prima dei dinosauri e oggi vive ufficialmente in 260 milioni di persone. Ma probabilmente sono il doppio, visto che può bastare un nanolitro di sangue infetto, cioè la miliardesima parte di un litro, per contagiare un milione di persone».
Se poi noi stessi fossimo virus, probabilmente oggi ci troveremmo a vivere nell’età dell’oro. «Così tanti uomini, tutti vicini nelle loro grandi città e pronti a mettersi in viaggio», spiega Guidotti. Non c’è nulla di meglio, per una classe di microbi che cerchiamo di tenere lontano o di sterminare con i mezzi (pochi) che abbiamo. Ma che a ben guardare sono stati il motore principale della nostra evoluzione. «Perché il loro lavoro è spostare informazioni genetiche da un organismo all’altro», spiega Guidotti. «E separati non possiamo vivere. Noi siamo la quercia e loro i porcini».
Questo indefesso lavoro di trasporto di frammenti di genoma, come un Amazon globale del Dna, ha anche dei vantaggi per la nostra medicina. «È il meccanismo che sfruttiamo quando facciamo terapia genica», spiega Luigi Naldini, direttore delSr-Tiget, “padrino” dei 110 pazienti che al San Raffaele sono guariti grazie ai vettori virali (in tutto il mondo sono circa 1.500). Saltando fra gli esseri viventi, infatti, i virus prendono, lasciano e mescolano pezzi di genoma in continuazione. Quello che fa in una generazione l’accoppiamento fra un maschio e una femmina, ricombinando due Dna diversi, loro lo ottengono in poche ore, come in una sorta di sesso accelerato. Per un virus che entra in una cellula, ne escono fino a 50 mila. «E noi dobbiamo stare molto attenti – spiega Naldini – che i nostri vettori non riacquistino l’abilità di replicarsi nel corpo dei pazienti». I vettori della terapia genica sono «virus privati dell’85% dei loro componenti. Così ridotti, sono completamente innocui. Ma mai fidarci, conosciamo la loro abilità. Se per qualsiasi motivo trovassero in giro i pezzi mancanti, sarebbero in grado di riassemblarsi e riprendere a replicarsi». Quando usi sui pazienti miliardi di virus, conclude Naldini, «non puoi accontentarti di un rischio basso. Devi essere sicuro che il rischio sia zero».
Un po’ come quando si manipolano virus come la Sars in laboratorio. «Non puoi distrarti», spiega Ghezzi. «Se ti stanchi, devi staccare. Se ti prude il naso, esci dal laboratorio per grattartelo. Mai toccarsi il viso mentre si manipolano virus». Sono precauzioni vitali. Ne sa qualcosa Naldini, che al Salk Institute di La Jolla, in California, nel ’94 lavorava per rendere inoffensivo l’Hiv: i suoi vettori per la terapia genica partono proprio dal virus che provoca l’Aids. «Avevamo paura, eccome» ricorda. «Allora poi non c’erano cure. Ricordo un collega che aprì con forza il freezer a meno 80. Una boccetta cadde e si ruppe, schizzando frammenti appuntiti e contenuto ovunque». In California si lavorava in pantaloncini, e solo per fortuna lui non si ferì. «Fu proprio l’Hiv – ricorda Guidotti – a riportare in auge una disciplina che a Medicina non si studiava quasi più. I microrganismi e le loro malattie erano corsi complementari. Sconfitte polio e tbc, pensavamo di essere entrati nell’era post- infettiva». Ma non era vero. «Uomini e virus sono legati da un destino comune. Il loro cammino è destinato a intrecciarsi per sempre».