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 2020  febbraio 02 Domenica calendario

Il regista Marco Tullio Giordana sul romanzo "I padri e i vinti" di Giovanni Mastrangelo (La nave di Teseo)

La formazione di Giovanni Mastrangelo è avvenuta in gran parte fuori dall’Italia, in Inghilterra e in Africa soprattutto, dove ha vissuto più di vent’anni facendo il fotoreporter e mille altri mestieri. Rientrato in Italia negli anni Novanta, ha cominciato a pubblicare racconti su «Linea d’Ombra», «Nuovi Argomenti», «Linus», «Corto Maltese» e a realizzare documentari e scrivere per il cinema, collaborando con un gigante come Bernardo Bertolucci sin da Il piccolo Buddha (1993). Tra i suoi romanzi, ricordiamo African soap (Marsilio, 2001; selezione Premio Strega) e Il sistema di Gordon (La nave di Teseo, 2016), il primo capitolo di una tetralogia che continua adesso con I padri e i vinti, in uscita per La nave di Teseo.

Un apprendistato piuttosto atipico — sempre che la formazione di un artista possa seguire protocolli e algoritmi e non l’istinto incontrollato — che rende questo autore irregolare, perfino «inclassificabile», come scrivevano i professori sui fogli dei temi in classe che scappavano via da tutte le parti prefigurando carriere scolastiche tortuose e infelici.

I padri e i vinti non segue una linea diacronica, anzi racconta un personaggio risalendo a episodi della sua vita prenatale. Ai genitori quindi, ai genitori dei genitori, arrivando, quando l’autore ne sente la necessità, a ripescare maglie seppellite della catena del Dna, precipitandosi perfino nella preistoria, per poi risalire improvvisamente al tempo presente senza apparente soluzione di continuità.

Come nei romanzi del cileno Roberto Bolaño — citato non per caso in esergo — è il Tempo il grande protagonista de padri e i vinti. Non solo nel frantumare la propria consequenzialità ma, come ci ha insegnato Albert Einstein, perfino la sua intersezione e coabitazione con lo Spazio, così da permetterci di saltare

Idalle ambientazioni nelle vallate della Resistenza alle periferie della Milano anni Settanta, tornare agli anni Trenta, risalire al presente, allungare addirittura l’occhio verso un futuro possibile, permettendoci di confrontare il ripetersi di situazioni in cui diverse generazioni, sia pure in modo molto diverso l’una dall’altra, sono state obbligate a mettersi alla prova.

I legami di sangue — e perfino un impronunciabile tabù — hanno funzione centrale nel precipitare di situazioni limite provocate dalla guerra, dalle leggi razziali, dal miracolo economico, dal deragliamento del Sessantotto con le sue speranze e i suoi devastanti effetti collaterali, in un’altalena continua fra derelizione e voglia di rimettersi in carreggiata, illusione e disperazione, tanto da rendere questo romanzo — avvincente e torbido — una radiografia delle vicende, non solo italiane, dal dopoguerra in poi.

Il titolo, che mischia Ivan Turgenev e Giovanni Verga, già promette la sostanza di uno scontro di generazioni in cui i figli debbono rassegnarsi a una storia minuscola rispetto a quella vissuta dei padri e venire a patti con l’entropia dei nostri anni terribili, trasparenti e impuri, circostanza che spiega l’oltranza delle loro rabbie e degli astratti furori. C’è infatti nella generazione dei baby-boomer, cui l’autore sente di appartenere per sbaglio, una sorta di maledizione originaria che potrebbe riassumersi proprio nell’incapacità, o impossibilità, di procedere con grandezza nei meandri della Storia loro assegnata, una condanna a vedersi deuteragonisti, mai davvero capaci di guadagnare il centro della scena.

I padri hanno subìto torsioni infinitamente maggiori, basti pensare soltanto alla guerra, eppure sono stati capaci di sopravvivere e ricostruire. I figli hanno dovuto cimentarsi con orrori infinitamente minori, eppure è come se li avessero affrontati con la sconfitta o la diserzione in tasca. Stiamo sempre parlando dell’Occidente, sia chiaro, delle terre della ricchezza e del privilegio. Le cose cambiano molto se ci si allontana da lì e, come promettono la terza e quarta parte della tetralogia, si cercheranno altrove felicità e destino.

Eppure gli anni Settanta, genericamente liquidati come «anni di piombo», furono, insieme al decennio che li ha preceduti, i più creativi, liberi, «internazionalisti» (in senso culturale più che politico) e sperimentali di tutto il Novecento; avrebbero potuto sbocciare nell’età dell’oro se qualcosa fosse cambiato nell’establishment conservatore, per non dire reazionario, che dominava ovunque, in America come in Russia (allora Urss), in Europa come in Africa e in Asia. Anziché reprimere si poteva accogliere, riformare e prendere il buono che la controcultura aveva pescato un po’ dappertutto anziché spingere i ragazzi nel vicolo cieco di passamontagna e mitraglietta. Ne I padri e i vinti c’è la sintesi di tutto questo, quella che la politica non ha saputo leggere né intercettare.

Non si pensi a un’operazione nostalgica o autoindulgente. Mastrangelo segue il filo dei fatti come il fotoreporter che è stato da ragazzo, rubando immagini, ritratti, sfondi e paesaggi, senza preoccuparsi di quello che potrà sembrare mosso o sfuocato. È l’insieme di tutti questi elementi a produrre il senso, come nell’impaginazione di una rivista dove l’effetto di ogni tessera si combina e solo insieme alle altre riesce a comporre finalmente il disegno. Uno stile fluido, apparentemente «imparziale», dove mai fanno capolino preoccupazioni didattiche o moraliste e risuona invece l’eco nemmeno troppo lontana di Beppe Fenoglio e Cormac McCarthy e la luminosità sospesa dei quadri dell’americano Andrew Wyeth, dove spesso i personaggi sono ritratti di spalle mentre scrutano un orizzonte lontano.

Tutti i personaggi, perfino quelli deplorevoli, sono raccontati scendendo nella profondità dei labirinti che li perdono o dai quali escono senza nemmeno ben sapere quale filo abbiano seguito. Si potrebbe chiudere il libro, dal quale è quasi impossibile staccarsi, con piena soddisfazione anche senza pensare ai due che seguiranno; ma certo, finito questo, viene subito voglia di averli tra le mani.